Cultura

La forza oscura di David Bowie si sprigiona in «Blackstar

David Bowie è tornato oggi, giorno del suo 69esimo compleanno, con l’album «Blackstar»
Lazarus, il nuovo video di David Bowie
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Il Duca Bianco diventa oscuro: David Bowie è tornato oggi, giorno del suo 69esimo compleanno, con l’album «Blackstar», un un ulteriore passo in avanti nella sua cinquantennale carriera. 

Anticipate dall’uscita del monumentale singolo da 10 minuti «Blackstar» e dalla ballata «Lazarus», le sette tracce del nuovo album contengono due titoli già noti ai fan, «Sue (Or In A Season Of Crime)» e «Tis A Pity She Was A Whore»: rispetto alla versione pubblicata nel 2014 entrambi i brani subiscono una radicale metamorfosi nell’arrangiamento, ma è da quelle due prove pubblicate dopo l’atteso ritorno con «The Next Day» che è partita una svolta sonora di cui Bowie raccoglie ora i frutti, un suono lontano dal rock’n’roll ricercato con lo storico produttore Tony Visconti ricorrendo a una band jazz guidata dal sassofonista americano Donny McCaslin. 

Fin dalla prima traccia Bowie si affida a un linguaggio musicale meno familiare del solito con forme libere, ritmi sincopati e frasi atonali che accompagnano un’antologia di racconti esoterici che parlano di angeli caduti e amori maledetti. 

In questo senso la title-track, già presentata con un inquietante videoclip e usata anche come sigla della serie «The Last Panthers» (entrambi diretti da Johan Renck) è l’esperimento più ambizioso, una lunga suite alla maniera di «Station to Station» farcita di riferimenti norreni e cabalistici e capace di introdurre l’atmosfera oscuramente esistenzialista dell’album. 

«Blackstar» segna anche la strada musicale per le tracce successive, un percorso tangente al free jazz di Ornette Coleman e ad avanguardie più recenti come i The Thing di Mats Gustafsson o i Naked City di John Zorn: come spiegato da Visconti in un’intervista a Mojo, l’ascolto dell’hip-hop sperimentale di Kendrick Lamar e Death Grips ha ispirato la scrittura di «Blackstar», come si avverte nella cappa luciferina e frenetica conferita a elementi presi in prestito da Brian Eno o dalle «Murder Ballads» di Nick Cave. 

Il Bowie dell’ultimo disco insomma non è un artista irriconoscibile, ma si dimostra ancora in cerca di nuovi linguaggi. 

La seconda metà dell'album, quella completamente inedita, cede a tratti alle lusinghe di forme più regolari e contemporaneamente recupera qualcosa della grammatica musicale di Bowie, come i cambi di tonalità e le chitarre tintinnati di «Dollar Days», o l’armonica della più aperta «I Can’t Give Everything Away», una chiusa malinconica punteggiata come il resto del disco da grandi assoli di sax e chitarra. 

A dispetto delle voci sulla sua salute, Bowie quindi non solo continua a tenersi parecchio occupato (il suo musical «Lazarus» ha debuttato a New York meno di un mese fa) ma soprattutto dimostra un’energia e una duttilità nell’uso del suo timbro che non può essere ottenuta con gli effetti sintetici, pure presenti per dare un’aria spettrale a certi versi: lo si nota nelle acciaccature con cui declama la melodia di «Girl Loves Me», brano reso ancora più complesso dal ricorso all’argot usato dai gay londinesi intorno agli anni ’60, il Polari (o Parlare). L’ennesima dimostrazione che per il Duca Bianco, così come per le «Blackstar» che sono i buchi neri, le regole del tempo lineare non valgono. 

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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