Cultura

Jonny Pierce: «Mi chiamavano malato, oggi sono felice»

Stasera alla Latteria Molloy l’unica data italiana della indie band incarnata dal giovane newyorkese. Nuovo album.
Nome di spicco dell’underground: Jonny Pierce, leader di The Drums - © www.giornaledibrescia.it
Nome di spicco dell’underground: Jonny Pierce, leader di The Drums - © www.giornaledibrescia.it
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The Drums: un nome di grandissima qualità nell’underground mondiale. È questa la band - tra indie, pop, wave e surf - che apre la stagione della Latteria Molloy di Brescia, in via Ducos 2/b. Il concerto è oggi, lunedì, alle 21.30 (ingresso 20 euro; prevendite su www.mailticket.it); l’apertura è affidata a Les Enfants.

I Drums suonano attorno alle 22.30. Presentano l’ultimo album, «Abysmal Thoughts», il quarto di una carriera piuttosto burrascosa. Ne parliamo con l’unico membro superstite, Jonathan «Jonny» Pierce, da New York City.

La band ha cominciato come... una band, adesso sembra più che altro il suo progetto solista. Cosa è successo?
Quando ho cominciato, mi sentivo insicuro. Mentre diventavo grande, mi ero accorto di essere gay. I miei genitori e tutte le persone che avevo attorno mi dicevano che ero malato, che dovevo essere curato, che qualcuno doveva mettermi a posto. Sono cresciuto pensando di non avere qualità. Di non valere nulla. La cosa è proseguita quando sono diventato adulto, e quando ho cominciato a scrivere musica ho pensato di farlo in una band, non da solo. Feci così perché pensavo che la gente non si sarebbe mai interessata a me come solista, credevo ci fosse bisogno di un gruppo di gente «cool». Con il passare degli anni queste persone hanno capito che volevano fare altre cose e, al contempo, ho capito di essere il cuore e l’anima di questa band, e che potevo farcela da solo. Oggi sono più felice che mai. Questo non significa che non debba affrontare la depressione. Ma so come cavarmela, perché mi conosco e so prendermi cura di me. Finalmente mi voglio bene. La gente che suonava con me, come i miei genitori, mi portavano ad essere insicuro. Adesso giro il mondo con persone che mi amano.

L’abbiamo vista ballare e cantare a Milano, in un concerto del tour promozionale di tanti anni fa. Era l’epoca del primo album. Fu un grande show e rimanemmo colpiti dal suo modo di cantare e di ballare. Uno stile unico...
Mi lascio andare e lascio che la musica prenda il sopravvento. Sono un ballerino da sempre. Da ragazzino andavo pure a lezione. Nei tour dei primi album penso che sul palco perdessi un po’ la brocca. Facevo il matto. Forse adesso è meno così, ma un po’ di danza e un po’ di pazzia restano sempre nella mia presenza sul palco.

Abbiamo sempre pensato ai Drums come se fossero i Joy Division nati in America, vestiti con i bomber, che mangiano fast-food e vanno a fare surf. La descrizione si avvicina al reale?
Comprendo il paragone, ma non la penso così. I Joy Division erano incredibilmente dark. Io così dark non lo sono mai stato. Se accosti la canzone più «felice» dei Joy Division, «Love Will Tear Us Apart», e la mia canzone più oscura, «Searching For Heaven», il paragone cade. Penso che The Drums siano solo The Drums.

Una volta leggemmo che l’effetto del riverbero è una delle cose principali della vostra musica. È ancora vero?
In realtà non potrebbe importarmi meno. Se il riverbero rende una canzone migliore, allora mi piace. Altrimenti lo lascio stare.

 

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