Johnny Marr degli Smiths in concerto al Vittoriale: l'intervista
Ha ragione Noel Gallagher quando lo descrive come una persona «euforica e sempre positivia». Johnny Marr, al telefono, è proprio così. Fondatore degli Smiths, chitarrista dalla bravura e dalla creatività infinite, 55 anni da Ardwick, Manchester, è una delle figure chiave della musica pop dell’ultimo mezzo secolo. E sarà a Gardone Riviera, al festival del Vittoriale «Tener-a-mente», giovedì 20 giugno per un concerto onestamente imperdibile. Johnny è in tour per «Call The Comet», il terzo (quarto, se si considera quello con gli Healers) disco da solista, pubblicato lo scorso anno. Dopo aver inventato l’indie-rock con gli Smiths (1982-1987), è stato anima dei progetti Modest Mouse, The The ed Electronic, ma ha anche onorato della propria presenza The Cribs. Tra i gruppi che non sarebbero mai esistiti senza Johnny Marr ci sono, appunto, anche gli Oasis. Partiamo da qui.
Johnny: concorda sul fatto che senza lei e il suo modo di suonare la chitarra non sarebbero neppure nate moltissime delle indie-rock band che hanno popolato le classifiche dagli Anni Novanta in poi?
Probabilmente sì. Quanto meno, sarebbe stato diverso. Non si può dire che il periodo in cui ho iniziato a suonare fosse caratterizzato dalla voglia di sperimentare con la chitarra. Dal desiderio di sondare le potenzialità di questo strumento e di spingersi oltre. Eravamo in pochi a volerlo fare. Mi vengono in mente solo gli Orange Juice (post-punk band di Glasgow, ndr). Ammetto di essermi affacciato alla musica nel momento giusto. Le circostanze hanno giocato a mio favore. Gli Smiths sono diventati famosi e importanti alla velocità della luce. Ero giovane, super-determinato, sono diventato celebre di colpo. Ho avuto coraggio e pure la sfacciataggine tipica della gioventù.
Dopo Gli Smiths, tante collaborazioni. La decisione di mettere il suo nome e il suo cognome davanti a tutto è arrivata relativamente tardi. L’esordio da solista, «The Messenger», è del 2013. Questa, adesso, è la formula ideale?
Penso di aver preso la decisione nel momento giusto. E tutto è nato dalle canzoni: «The Messenger», «New Town Velocity», «Dynamo» (che poi ho usato per il secondo disco, «Playland»). Non volevo che le cantasse qualcun altro. Erano roba mia, le mie melodie, le mie parole, i miei incastri sonori. E confesso che quando ho deciso di mettermi in proprio non avevo idea di come sarebbe andata. Ricordo che mi sono chiesto: «Mi troverò a suonare davanti a qualche centinaio di persone o andrò nelle arene?». Oggi posso solo sorridere. E vivo con la convinzione di scrivere e suonare musica che «ha senso qui e ora». Parole e note attuali, a presa rapida.
«Playland» (2014) è stato un disco ispiratissimo. Il singolo «Easy Money» è entrato in rotazione massiccia anche nelle maggiori radio italiane. «Call The Comet» è un passo in là. Come descriverebbe il cambiamento?
Sia «The Messenger» sia «Playland» hanno un sapore new-wave. L’ultimo disco è «cosmico» e al contempo «industriale». C’è dentro un sacco di Manchester, l’ho registrato in una fabbrica nella periferia della città e l’ambiente mi ha influenzato molto. A proposito, prima di iniziare la carriera solista vivevo negli Stati Uniti. E ci stavo pure un gran bene. Ma quando ho scelto di fare in proprio mi sono detto: «Johnny, torna a casa». L’Inghilterra ha un tipo di tensione che non avrei saputo trovare altrove.
Siamo gli unici a credere che la musica che ha prodotto con gli Electronic (insieme a Bernard Sumner di Joy Division e New Order) sia stata incredibilmente sottovalutata?
No, lo penso pure io. Sapete quale fu il problema? La gente ascoltò quei dischi con in mente proprio i Joy Division, i New Order e gli Smiths. E tutto sommato non fu giusto. Era una storia diversa. Ma, da «Idiot Country» a «Vivid», per gli Electronic ho scritto brani che amo ancora molto.
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