«Io, supplente non pentita tra le peripezie della scuola»

Vacanze in sospeso, tra «il punto a capo di giugno e il punto di domanda di settembre», per l’insegnante precaria che, puntualmente licenziata al termine delle annuali attività didattiche, dovrà attendere una chiamata alle soglie dell’autunno per conoscere la sua futura destinazione. Eppure, munita di laurea in lettere e specializzazione, ha anni di formazione in itinere e di esperienza da raccontare.
Ha iniziato a parlarne in un blog (www.dicebeatrice.it) e ne è nato un libro: «Avventure tragicomiche di una supplente», edito da Harper Collins, è appena uscito in libreria. Bresciana è chi scrive, con il parziale pseudonimo di Beatrice Viola. Concittadino è Biro, autore del disegno di copertina e in clima sono le vivaci atmosfere, tanto da richiedere un glossario ad uso dei lettori non in familiarità con il nostro dialetto, che ben permea anche il lessico dei ragazzi con colori d’Africa.
«L’insegnamento itinerante all’inizio ha i suoi pregi - considera Beatrice -, ma c’è l’aspirazione a stabilizzarsi: ad ogni inizio d’anno vedo i balletti che si susseguono da una cattedra all’altra, primi a risentirne sono gli studenti. Ricominciare ogni volta è complicato e faticoso». Supplente dal 2012 dopo aver fatto pratica con le cooperative per l’insegnamento di lingua italiana agli stranieri, Beatrice non ha ancora in vista l’auspicabile stabilità e di nuovo è alle prese con le procedure Inps dell’indennità di disoccupazione, fortunatamente oggi un po’ semplificate rispetto alle tragicomiche avventure descritte nel libro.
Nonostante tutto, chiude in positivo il suo personale bilancio, rispetto a «un lavoro che mi piace molto: impegna e affatica, ma arricchisce e diverte». Un lavoro che in ogni scuola richiede un approccio diverso. Può risultare «abbastanza scioccante» il primo ingresso nel mondo degli aspiranti meccanici (anzi degli «h’asp mekk», per dirla a modo loro) in un centro di formazione professionale. Poi si scopre «un mondo interessante e, in un clima multietnico, il bisogno di farsi ancor più educatori che in altri contesti, di trovare una chiave per arrivare al vissuto di ragazzi con una scolarizzazione non così solida come si vorrebbe. Ragazzi che in officina si trasformano, come ho potuto constatare assistendo agli esami di qualifica. Certo, quando sono passata all’Itis ho provato sollievo, trovando più abitudine allo studio, ma ogni esperienza ha peculiarità interessanti».
Sono educati e tranquilli gli aspiranti ragionieri ma, avvolti come sono nel «grande sonno» dell’adolescenza, oppongono alle parole dell’insegnante il «muro gentile» di una partita di squash. Si rischiano lesioni ai timpani accompagnando in mensa i piccoli urlatori delle medie, pronti a disseminare di cuoricini i messaggi d’addio alla supplente. «Pota, la vita è ingiusta», commenta il dodicenne che non può darsi ragione degli strani effetti delle graduatorie.
«A quell’età il livello umano è molto importante - osserva l’autrice di questo libro brioso e divertente, nei suoi spaccati in presa diretta con le aule scolastiche -: l’insegnante è una persona a cui ci si affeziona e diventa un riferimento. Si attraversano stati d’animo diversi, in un lavoro che è molto stimolante a livello emotivo. Dalla mia esperienza prendo piccoli ritratti, episodi, senza la pretesa di trasmettere un’idea: mi piace soffermarmi sul lato buffo, gli adolescenti cercano sorriso e battute. È bella questa leggerezza e se l’interesse per lo studio non è presente bisogna stimolarlo. Ho bene in mente com’ero anch’io alla loro età».
Accanto alle dieci ragioni per lasciare una vita alle prese con gli oltraggi alla grammatica, ve ne sono altrettante di segno diverso e alla fine prevalenti, per chi ama il suo lavoro, tra «quelle curiose creature chiamate studenti».
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