«Io, bresciano, in viaggio al Sud sul furgone della memoria»
Un viaggio nel Sud, sul "furgone della memoria", assieme ai protagonisti della lotta contro la mafia e ai familiari delle vittime innocenti delle stragi. La tappa finale è via D’Amelio a Palermo, scenario di una delle più atroci stragi avvenute per mano di un’organizzazione criminale di stampo mafioso-terroristico, dove il 19 luglio del 1992 perse la vita il giudice Paolo Borsellino e, con lui, cinque agenti della sua scorta.
L’ha compiuto Alessandro Lucà, scrittore e poliedrico artista bresciano, che ha dato alle stampe nel 2020 «Ti proteggo io» (Iod edizioni, 162 pp., venduto in abbinamento al nostro quotidiano fino al 31 luglio al prezzo speciale di 6,50 euro), storia di un giovane scrittore all’apice del successo, il cui agente letterario, e amico, organizza una trasferta in Sicilia per sfuggire alle pressioni dell’improvvisa notorietà. Qui, però, lo attenderanno vicende di amicizia, amore e mafia, che lo coinvolgeranno oltre ogni previsione.
Ne parliamo con l’autore. Lucà, ci racconti qualcosa della sua esperienza, a 29 anni dalla strage di via D’Amelio, e del suo incontro con Salvatore Borsellino, fratello minore di Paolo... «Devo ringraziare Mario Bruno Belsito, presidente della Rete antimafia di Brescia, che ha organizzato tutto con me. Ho avuto l’opportunità di presentare il mio libro in alcuni festival letterari del Sud Italia, anche col sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, con lo scrittore Giulio Cavalli, i fondatori di Radio Aut e dell’associazione "Peppino Impastato", testimoni di giustizia ed esponenti di calibro. In più, in questa missione, si è aggiunto il gesto dell’europarlamentare Piera Aiello, la quale ha regalato a Salvatore Borsellino un furgone per gestire le scorte per la memoria, che proseguono da tre mesi. Con questo veicolo, interamente ricoperto con immagini di Paolo Borsellino e con le sue frasi più famose, Belsito ed io abbiamo attraversato Calabria e Sicilia, scortati da una volante della Polizia con i lampeggianti accesi in modo simbolico. Arrivati in via D’Amelio, ci aspettava Salvatore per il passaggio di consegne. Era stato istituito anche un banchetto, con un presidio di volontari, per evitare atti di sciacallaggio in un luogo per noi sacro. Siamo rimasti tre giorni, abbiamo dormito nella casa di Paolo - l’ex abitazione di famiglia, oggi utilizzata per aiutare chi decide in qualche modo di collaborare -, incontrando persone legate alla strage, come Antonio Vullo, l’unico sopravvissuto, familiari delle vittime e testimoni di giustizia che si alternavano sul posto. I loro racconti mi hanno molto colpito, e arricchito».
A che punto siamo nella lotta contro la mafia e l’illegalità? «Siamo entrati nel trentennale della strage di via D’Amelio. Noto che, purtroppo, solo nel periodo delle ricorrenze c’è un intensificarsi di atti della memoria nei confronti delle stragi, mentre - come mi hanno insegnato a Palermo - la scorta della memoria dev’essere tutti i giorni. La memoria si difende mediante la cultura, la scuola, i giornali, la tv, l’informazione. Ma non se ne parla più perché, anche a livello governativo, sono sempre altre le priorità del legislatore; ho l’impressione che si sia abbassata la guardia in quanto, non verificandosi fatti eclatanti, anche l’opinione pubblica tende a pensare che la mafia sia stata quasi completamente sconfitta. Invece non è così e la ’ndrangheta, ancor più della mafia, ha acquisito potere e gode di una grande capacità di infiltrazione, anche al Nord».
Perché il suo romanzo è «una storia d’amore contro la mafia»? «La mafia si ciba di odio e di rivalità. Ma c’è una risposta d’amore contro la mafia, che passa anche attraverso la protezione dei testimoni di giustizia, per restituire loro quell’atto di umanità e responsabilità reso verso l’intero tessuto collettivo».
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