Internet è come la plastica: ha cambiato il mondo, ma lo soffoca
Internet è come la plastica: un’invenzione che ha cambiato il mondo e ora, usata in modo sconsiderato, lo sta soffocando. Fausto Colombo, sociologo della comunicazione, con un brillante saggio - «Ecologia dei media» (Vita e pensiero, 122 pagine, 13 euro) - prova a dare un approccio ambientalista allo strabordare dell’Infosfera. Il mondo sta cambiando vorticosamente. Giornali , cinema, radio, televisione avevano segnato i tempi passati in tre ondate successive - dalla stampa industriale ai grandi mezzi istantanei e audiovisivi alla prima digitalizzazione -, ma la quarta ondata, dal web 2.0, ci sta travolgendo. Unisce e mescola ogni mezzo precedente: non c’è più distinzione tra chi produce contenuti e chi ne fruisce, tra possesso e accesso, tra testo fissato e conversazione interattiva, tra reale e inventato. Dominano le piattaforme social, «macchine algoritmiche la cui benzina è costituita dal comportamento degli utenti».
L’intero universo dei media è diventato un ecosistema, perché - sostiene Colombo - «interagisce in più punti, con molteplici effetti, e provocando reazioni plurali di addattamento, con l’ecosistema complessivo della nostra vita individuale e sociale... È inevitabile che media così pervasivi pongano questioni per così dire di eccesso, di inquinamento». C’è un problema oggettivo, materiale e di sostenibilità ambientale: «Ogni sistema di intelligenza artificiale brucia 284 tonnellate di anidride carbonica solo nella fase di apprendimento degli algoritmi». C’è poi un eccesso di carattere strumentale: le piattaforme sono diventate mezzo dell’organizzazione della nostra esistenza «rendendo possibile il nostro essere disponibili a qualunque ora e in qualunque luogo, tanto da farci immaginare anche la disponibilità altrui come illimitata».
Vi è un eccesso nei contenuti: la Rete è diventata simile alla Biblioteca di Babele immaginata da Jorge Luis Borges. «Evidentemente una quantità illimitata di informazioni significa l’impossibilità di attingerle, nel corso di una vita umana». Ed è solo un’illusione che i motori di ricerca siano strumento al servizio della nostra libertà, perché sono creati per «customizzare»: gli algoritmi assecondano le nostre curiosità focalizzandole sempre sugli stessi argomenti. Domina l’omologazione, sulle piattaforme: ognuno si muove nel proprio cluster. Il web non favorisce, come ci si era illusi all’origine, un «sapere diffuso», semmai asseconda «la propensione delle piattaforme ad aggregare dati in base alla congruenza con le tendenze culturali dominanti e le attitudini conoscitive del singolo utente». C’è poi la bolgia dei social: l’aggressività, l’odio celato dietro l’anonimato, lo schierarsi con la maggioranza becera, le fake news e la post-verità. Tutta colpa delle piattaforme? No, anche se le loro specificità favoriscono modelli che generano traffico, meccanismi acchiappa-click. «L’utente - spiega Colombo - viene considerato come produttore di traffico e di dati». Inutile pensare che Facebook, Twitter e company diano una regolata alla fonte dei loro guadagni. I social, moltiplicando odio e falsità, «inquinano il nostro universo simbolico».
Avere un approccio ambientalista significa modificare il nostro atteggiamento per arginare l’inquinamento della «mediatizzazione» che si è infiltrata negli spazi e nei tempi degli individui e della società. Ma come? Fare «un passo indietro», come suggerisce la Scuola di Palo Alto: non replicare all’odio in Rete, restare discorsivi anche in situazioni critiche. Fausto Colombo, come approdo, propone un «Manifesto per la comunicazione gentile». Parte dalla considerazione che nel web, sotto mentire spoglie, molti si sentono autorizzati «a fare quel che fanno gli altri», a scrivere quel che mai direbbero se avessero di fronte l’interlocutore, a non ritenere che le parole hanno conseguenze, che le idee si possono discutere ma gli insulti non sono argomenti. Bisognerebbe tornare alle origini dell’interazione umana. Se è vero che la comunicazione è «la nostra prima esperienza di individui», quel che ci rende davvero umani, bisognerebbe «cercare di chiamare per nome l’altro o di mostrarsi interessati alla sua vita e alle sue ragioni». «La comunicazione pensata come un legame di apertura e non come la narcisistica espressione di tanti individui soli, affidati alle logiche auto-generate degli algoritmi».
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