Cultura

In un codice del Trecento la più antica veduta di Brescia

Giancarlo Petrella
Se ne parla nell’ultimo numero di «Misinta», la pluritrentennale pubblicazione dell’Associazione dei Bibliofili Bresciani
La miniatura di Brescia contenuta nel manoscritto «Compendium moralis philosophiae» © www.giornaledibrescia.it
La miniatura di Brescia contenuta nel manoscritto «Compendium moralis philosophiae» © www.giornaledibrescia.it
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Il nuovo fascicolo dell’ormai pluritrentennale rivista Misinta dell’Associazione dei Bibliofili Bresciani riserva al lettore parecchie ghiotte sorprese, in un percorso che muove, come sempre, tra manoscritti, libri a stampa e documenti d’archivio. Dalla pregevolissima riserva manoscritta della Bibliothèque Nationale di Parigi si affaccia un codice trecentesco che presenta la più antica veduta di Brescia a oggi nota, di cui discorre Giuseppe Nova.

Di cosa si tratta? Il manoscritto trasmette il «Compendium moralis philosophiae», un poemetto morale composto dal domenicano Luca Mannelli per Bruzio Visconti, figlio naturale di Luchino Visconti, signore di Milano. Il codice, vergato prima del 1346, è riccamente illustrato, come si confà al destinatario, noto bibliofilo e poeta. Presenta all’incipit una miniatura raffigurante l’autore, Luca Mannelli in abiti domenicani, che consegna il volume a Bruzio, e nello spazio inferiore della pagina una miniatura raffigurante il Visconti nelle vesti della Giustizia che calpesta la Superbia, affiancato da tre autori classici (Aristotele, Valerio Massimo e Seneca) e tre santi (Tommaso, Ambrogio, Agostino). La pagina è infine inquadrata da un fregio che contiene le vedute delle città all’epoca soggette ai Visconti. E qui si rintraccia, appunto, anche quella che può essere considerata la più antica raffigurazione di Brixia, con una cerchia di mura merlate con un possente torrione al cui interno si scorgono due chiese e a sinistra un’alta torre. Ignoto resta l’autore della miniatura, forse riconducibile a un anonimo artista bolognese del pieno Trecento.

Maffeo Pasini

Severino Bertini ci conduce invece a Venezia, dentro una delle più note botteghe del Cinquecento, quella dei soci Francesco Bindoni e Maffeo Pasini. Se il Bindoni era oriundo del Lago Maggiore, il Pasini era invece bresciano di Soprazocco. Si era formato come lavorante nella bottega Bindoni e nel 1524 aveva sposato Ursia, vedova di Alessandro Bindoni, con la quale siglò un contratto societario che Bertini ha scovato nell’Archivio di Stato di Venezia, autentica miniera di documentazione sulla tipografia rinascimentale. Ursia ci metteva gli strumenti e la bottega, Maffeo la sua esperienza e un certo quantitativo di carta. Spese e utili sarebbero state divise a metà.

Inizia da qui l’avvincente storia della tipografia Bindoni-Pasini, che dal 1524 al 1551 licenzierà nella bottega «appresso santo Moyse» parecchie stampe anche di grande prestigio, come il Giovenale con il commento del bresciano Giovanni Britannico del 1548, o i ricercatissimi titoli cavallereschi del «Morgante» di Pulci, il «Guerrin Meschino» e l’«Orlando furioso». Alla loro bottega bussò anche un cantastorie di passaggio, Ippolito da Ferrara, che commissionò la stampa di una raccolta di «Sonetti e strambotti» e, nel 1538, un più esuberante «Triompho della lussuria». Conosciamo anche le ultime volontà del Pasini. Le trasmette il testamento, anch’esso scovato e pubblicato dallo studioso, dettato nel 1549 da «Maphio fiol del quondam ser Francesco di Pasini da Sopra Zocho» al notaio Marin Buondio. Due anni più tardi il Pasini lasciava questo mondo.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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