Il teatro al tempo della guerra: la storia dei ventenni di Kiev tornati sul palco a Verona
Nei camerini del teatro Camploy di Verona si respira un'atmosfera complice e scherzosa. Le lampadine sul contorno degli specchi illuminano i caricabatterie e i quaderni lasciati sopra i tavoli, sulla sedia c'è una confezione di prosciutto crudo con il pane per uno spuntino prima dello spettacolo. Un gruppo di ventenni ride e prepara una sigaretta da fumare fuori. Qualcuno intanto ripete parole che fanno parte di un lessico ormai familiare: distress, displacement, be taken.
Di angoscia, fuga, di essere presi con la forza, parlano ragazzi e ragazze ucraini fuggiti dalla guerra un anno fa e ospitati in Italia inizialmente dal regista Matteo Spiazzi.
Hanno fra i 18 e i 25 anni, sono studenti dell'Accademia d'arte drammatica di Kyiv. Nei mesi scorsi hanno lasciato tutto - studi, famiglie, amici - e sono partiti per Verona dove li hanno accolti Spiazzi e l'attore Davide De Togni. Insieme a Katia Tubini e altri sette fra docenti e direttori di scena hanno dato vita a stage4ukraine, un'organizzazione no profit per accogliere gli studenti ucraini della National University of Theatre Cinema and Tv e la Circus Academy of Dramatic Arts e aiutarli a proseguire la loro formazione drammaturgica.
Per il primo anniversario della guerra il 27 febbraio al teatro Camploy hanno messo di nuovo in scena «Le Troiane» da Euripide, una versione rivisitata in chiave metateatrale della tragedia classica che racconta il loro dramma di esuli in relazione all'esodo della mitologia greca (regia e adattamento di Matteo Spiazzi, produzione di Fucina Culturale Machiavelli con il patrocinio del Comune di Verona, fotografie di scena di Maria Giulia Trombini. Lo spettacolo è in italiano con alcune parti in ucraino). E che varrebbe la pena riuscire a portare a Brescia per l'anno di Capitale italiana della Cultura.
«Da febbraio 2022 sono arrivati circa cinquanta ragazzi ucraini, all'inizio anche alcuni minori, per cui abbiamo dovuto capire anche come organizzare i canali di accoglienza per minori non accompagnati. È stata un'esperienza travolgente» ricorda Spiazzi a un anno di distanza dall'inizio di quest'avventura che lo ha portato a gestire una compagnia teatrale diventata anche punto di riferimento personale per decine di ventenni. E che nei suoi spettacoli si pone una domanda senza tempo, oggi martellante per chi la interpreta sulla scena: a che serve l'arte quando i bambini muoiono?
Il progetto
Stage4ukraine nasce pochi giorni dopo l'inizio dell'invasione. Matteo Spiazzi era a Kyiv dove stava preparando lo spettacolo «The Ball» con Katia Tubini per il National Operetta Theatre. Il 24 febbraio si sveglia con il bombardamento dell'aeroporto di Hostomel' vicino alla capitale: «Sulle chat del teatro sono arrivati i primi messaggi: è iniziata la guerra. Nessuno ci credeva fino al giorno prima, eravamo tutti fuori a cena» racconta il regista. Lui e altri italiani si rifugiano nell'ambasciata italiana e vengono trasferiti nella casa dell'ambasciatore nel pomeriggio. Riescono a lasciare il paese dopo quattro giorni su un furgone che li porta al confine con la Moldavia e poi passando dalla Romania. «Per tutto quel tempo è come se si fosse chiuso un rubinetto: non provavo emozioni, nemmeno più il panico iniziale. Seguivo le istruzioni in modo molto razionale - prosegue Spiazzi -. Poi quando siamo saliti sull'aereo che ci avrebbe riportato in Italia il rubinetto si è aperto. Ho provato un senso di colpa soverchiante per i miei colleghi e studenti ucraini. È stato in quel momento che Katia e io abbiamo capito che dovevamo fare qualcosa e scritto per la prima volta: stage4ukraine».
Nel giro di poche settimane Spiazzi mette in pausa il suo lavoro e inizia a organizzare l'accoglienza degli studenti, prima da solo con Davide De Togni poi con il supporto di altre associazioni e realtà tra cui la Caritas e il comune di San Giovanni Lupatoto in provincia di Verona. Nei mesi successivi diversi teatri e scuole di recitazione in Italia decidono di appoggiare stage4ukraine inserendo alcuni studenti nei loro corsi o nelle compagnie, dal teatro Piccolo al Paolo Grossi di Milano all'Accademia Goldoni di Venezia al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, giusto per nominarne alcuni.
«Le Troiane» metateatrali
«Le Troiane» di stage4ukraine è nato durante un periodo di residenza estiva sui monti veronesi. Per alcune settimane ragazze e ragazzi si sono interrogati insieme a Spiazzi sulla tragedia di Euripide, che racconta il dramma delle donne di Troia costrette a lasciare la città data alle fiamme dall'esercito di Agamennone e a diventare schiave degli Achei. L'esordio è stato a luglio a San Giovanni Lupatoto, poi lo spettacolo ha viaggiato in alti teatri e in moltissime scuole.
Lo spettacolo della compagnia degli studenti ucraini interseca il piano della realtà - la loro, i profughi d'Europa contemporanei - con quello del testo classico - le esuli troiane, le profughe di millenni fa. Le scene si fondono all'interno di una scenografia essenziale: Poseidone narra il dramma della città caduta nella sala della casa dei rifugiati, il coro diventa il dramma delle ucraine, Mariupol è la nuova Troia, il ragazzo sconvolto da una crisi di panico che poi collassa tra le braccia di un'amica è la versione animata della Pietà di Michelangelo. Per troiane ed ucraini la domanda è la stessa: a cosa serve questo spettacolo quando la gente muore?
Nella narrazione volutamente sincopata, che alterna momenti di calma a grande tensione, c'è spazio per il monologo con la storia vera di Hlib Tovstoluh. Il 18enne originario del Donetsk, la regione orientale dell'Ucraina sotto controllo russo, racconta il suo dramma familiare: «Era il 25 febbraio quando mio padre, che fa il taxista, è stato fermato da alcuni militari - dice Hlib nei camerini qualche ora prima di entrare in scena -. Lo hanno costretto a firmare un foglio in cui si arruolava nell'esercito russo. In teoria un padre di tre figli è esentato dalla leva, ma lo hanno preso (he was taken) e costretto a combattere contro gli ucraini». Per questo sul palco Hlib grida che non tornerà in Ucraina perché non vuole essere costretto a uccidere qualcuno, perché non vuole rischiare di combattere contro suo padre.
«Le Troiane» di stage4ukraine fanno questo: costringono lo spettatore a immedesimarsi in chi è stato costretto ad abbandonare tutto, in chi si sente in colpa per averlo fatto, in chi si chiede che significato abbiano i verbi restare, tornare, credere, essere parte di un popolo. Non ci sono risposte compiute, l'abbozzo è forse negli abbracci della scena finale, ma il compito è lasciato a chi osserva, cui si chiede di partecipare almeno con mente e cuore per la durata della performance.
L'arte di sopravvivere alla guerra
Immergersi in un testo che parla di guerra, addii, distruzione non è semplice per chi li sta vivendo in quel momento. «Ho iniziato a prepararmi alla performance provando a pormi domande a cui non riuscivo a dare risposta. Credevo che l'arte potesse aiutarmi, ma non sono sicuro sia stato così. Perché sta succedendo tutto questo? Non lo so. Cosa possiamo fare noi? Non lo so». Marco ha vent'anni, viene da Zaporizhzya, la città del sud est dell'Ucraina vicino a Dnipro con la centrale nucleare finita più volte sotto l'attacco dei russi. Come tutti i ragazzi di stage4ukraine prima dell'invasione del 24 febbraio Marco studiava arte drammatica nella capitale ucraina. Poi è fuggito e la scorsa estate ha partecipato al ritiro di due settimane tra Bosco Chiesanuova e Lughezzano, due paesi in montagna in provincia di Verona, dove è nato «Le Troiane».
La difficoltà di trattare il testo la riassume Anastasiia Dudnik per tutti: «L'esperienza di questo spettacolo è stata difficile. Mi sono sentita denudata. A volte salgo sul palco odiando totalmente quello che sto facendo. Altre volte non potrei immaginare la mia vita in un altro modo - dice la 26enne -. Perché il mio rapporto con la recitazione è stato pesantemente impattato dalla guerra e dalla fuga. Mi capita ancora di pensare che l'arte non abbia senso. Però sto ancora cercando di metabolizzare». Diversi ragazzi raccontano di aver avuto crolli emotivi e attacchi di panico durante le prove. «È una storia che ci tocca troppo da vicino - ammette Glib, 20 anni -. All'inizio non riuscivamo nemmeno a piangere. Poi è diventato una sorta di terapia e abbiamo capito cosa volevamo raccontare». Hlib e Anastasiia raccontano di aver trovato conforto nel gruppo che nei mesi è diventato qualcosa di molto simile a una famiglia, nonostante tutti vorrebbero tornare a casa e riabbracciare la propria. Anastasiia sta infatti per partire anche se ormai qui ha trovato qualcosa di cui sentirsi parte, molti come Hlib non possono farlo.
Stage4ukraine è il punto di partenza per loro: per riuscire a raccontarsi e provare a superare il trauma condividendolo con una comunità più ampia - l'Italia - che non avrebbero mai pensato potesse diventare la loro. E per trovare qualcosa e qualcuno che in mezzo all'inferno non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio - per citare uno famoso che ha saputo dirlo meglio di tutti (Italo Calvino, «Le città invisibili»).
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