«Il patto educativo di Francesco speranza in un mondo in guerra»
Mons. Vincenzo Zani, nel mondo attuale sconvolto da continui tragici conflitti, ha ancora senso parlare di cooperazione internazionale?
Credo sia proprio questo il momento non solo di parlare, ma soprattutto di attuare in modo nuovo e creativo la cooperazione internazionale per arginare e invertire la deriva in cui si trova a vivere l’umanità in molti contesti locali come anche a livello globale. Da una parte si osserva che la spesa militare complessiva a livello mondiale ha superato ampiamente i 2.000 miliardi di dollari l’anno, dati da rivedere dopo il conflitto in Ucraina e in Medio Oriente; dall’altra continua ad aumentare la costruzione di muri e recinzioni per separare ciò che in realtà è strutturalmente unito. Oggi esistono nel mondo 80 muri per quasi 50.000 chilometri, l’equivalente della circonferenza dell’intero pianeta. È dinnanzi all’evidenza di questi dati che si deve invocare lo spirito di una rinnovata cooperazione per evitare il tracollo globale.
Qual è la cooperazione internazionale che propone la Chiesa cattolica?
Già il Concilio, con uno sguardo attento ai Paesi in via di sviluppo, raccomandava la cooperazione internazionale non solo a livello economico, ma anche sociale e culturale, fornendo quattro indicazioni di percorso: puntare alla piena espansione umana dei cittadini; il dovere delle nazioni evolute di aiutare i popoli in via di sviluppo; il ruolo della comunità internazionale di coordinare e stimolare gli interventi; avviare processi di revisione delle strutture economiche e sociali, evitando di adottare soluzioni tecniche punitive. Il tutto al fine di creare le condizioni per una società più solidale e matura che guardi al futuro e generi speranza.
Dopo vari decenni, lo sviluppo odierno, in una società molto più complessa, richiede molteplici e differenziati approcci e nuove chiavi di lettura che devono coinvolgere anche l’intero mondo dei saperi antropologici, tecnici e scientifici, e lascia intravedere l’inderogabilità del compito formativo da condurre con rigore e coraggio per elaborare un nuovo pensiero umano e sociale. Tutto ciò a partire da alcuni principi-base, diventati classici nel pensiero sociale della Chiesa ed oggi particolarmente attuali.
Anzitutto i diritti umani. Rappresentano il dato fondamentale che trova nella dignità della persona la fonte ultima. Alla luce delle incertezze giuridiche e politiche che hanno accompagnato il riconoscimento del diritto allo sviluppo, diventa necessario interrogarsi non solo sul rapporto tra diritti umani, democrazia e sviluppo, ma anche sul ruolo svolto dalla comunità internazionale nella loro promozione. Poi, il principio del bene comune che non è la semplice collezione dei beni privati, né il bene proprio di un tutto che frutti soltanto per sé e sacrifichi a sé le proprie parti; ma è la buona vita umana nella moltitudine, è la comunione di molti nel vivere bene. In terzo luogo, la solidarietà come partecipazione alla produzione e alla fruizione del bene comune della società a tutti i livelli. Oltre al superamento delle disuguaglianze tradizionali, oggi essa dovrà saper coniugare contemporaneamente i bisogni della soggettività, soddisfare le esigenze individuali e valorizzare il diritto di ciascuno alla differenza. Infine, la sussidiarietà. Tale principio è stato precisato da Giovanni Paolo II in questi termini: «Una società di ordine superiore non deve interferire nella vita inferiore, privandola delle sue competenze, ma deve piuttosto sostenerla in caso di necessità ed aiutarla a coordinare la sua azione con quella delle altre componenti sociali in vista del bene comune».
Nell’era moderna i pontefici hanno svolto un ruolo centrale nella promozione e nella difesa della pace, che è anche uno dei principi della dottrina sociale della Chiesa. Ma il mondo sembra andare in tutt’altra parte, come anche i conflitti attuali ci dimostrano. La voce della Chiesa è destinata a rimanere inascoltata?
Sono passati 956 giorni (24 febbraio 2022) da quando la Russia ha cominciato a invadere l’Ucraina, provocando decine di migliaia di vittime; è trascorso un anno dalla brutalità della strage del 7 ottobre in Israele e Gaza, con migliaia di vittime e distruzioni che non accennano a finire; ci sono 56 conflitti attivi al momento nel mondo, il numero più alto dalla fine della seconda guerra mondiale. Gli organismi internazionali sembrano svuotati di credibilità e le democrazie danno segni di fragilità. Questa è la fotografia della realtà che si vede: il male esplode in superficie, mentre il bene preferisce radicarsi in profondità ed è lì che la Chiesa continua a lavorare per la pace. Il Papa interviene costantemente ad invocare la pace e molti sono gli operatori di pace che agiscono nel silenzio, che camminano in terreni pericolosi, che costruiscono percorsi fatti da persone diverse per appartenenze, culture, tradizioni, religioni.
Anche se pare inascoltata, la Chiesa rinnova il suo messaggio perché molti lo attendono e lo ascoltano. Francesco non intende proporre una «pace» intesa come «tranquillità» a costo di far calare il silenzio sulle ingiustizie e la difesa dei poveri oppure una «falsa neutralità che ostacola la condivisione». Riprendendo la Populorum progressio di Paolo VI, egli esprime la convinzione che «una pace che non sorga come frutto dello sviluppo integrale di tutti, non avrà nemmeno futuro e sarà sempre seme di nuovi conflitti e di varie forme di violenza». E anzi, la pace non è un obiettivo da raggiungere, ma solo il primo passo, la condizione dello sviluppo e del superamento delle ingiustizie per costruire il bene comune e promuovere la solidarietà nel mondo globalizzato.
La politica internazionale sembra essere quanto mai ininfluente, perché accade questo? Cosa non funziona nelle relazioni internazionali?
Dopo i primi anni del XXI secolo, in cui si accompagnava con entusiasmo il processo di globalizzazione in atto, la crisi finanziaria del 2008 ha provocato una crescente ondata di populismo che ora non può più essere considerata come un’anomalia, ma come una componente strutturale degli assetti democratici contemporanei. Si tratta di un fenomeno che si sviluppa a causa di oggettive situazioni di disuguaglianza provocate dalla crisi della crescita economica ma, insieme a questa, anche dalla crisi dei valori fondamentali che da sempre hanno caratterizzato la cultura di gran parte dei Paesi occidentali. Davanti a questa situazione, segnata anche da altre variabili, si avverte una certa pigrizia delle élites politiche, economiche e culturali ad ammettere i problemi derivanti dal modello di organizzazione sociale affermatosi negli ultimi decenni. Nel suo discorso ai Membri del Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, l’8 gennaio 2024, papa Francesco ha invitato la Comunità internazionale a riprendere il dialogo, superando la congiuntura «causata dall’indebolimento di quelle strutture di diplomazia multilaterale che hanno visto la luce dopo il secondo conflitto mondiale” e recuperando «le radici, lo spirito e i valori che hanno originato quegli organismi». Nella recente assemblea dell’ONU è stata approvata una risoluzione per evitare la deriva conflittuale in atto nel Medio Oriente, ma non ha prodotto conseguenze. Il pontefice insiste sulla necessità di credere fermamente nei processi di pace, nonostante le difficoltà e i sacrifici che richiedono. «La via della pace passa per il dialogo politico e sociale…, per il dialogo interreligioso… e passa per l’educazione che è il principale investimento sul futuro e sulle giovani generazioni».
Cos’è il patto educativo globale proposto da papa Francesco?
La proposta di costruire un patto educativo è da considerare come la scelta di porre un punto fermo all’attuale cambiamento d’epoca sempre più rapido. Si tratta di un elemento che sintetizza e unifica il lungo percorso del pensiero sociale che si è snodato soprattutto dal Concilio ad oggi. Papa Francesco, dopo il suo viaggio negli Emirati Arabi, dove ha sottoscritto con il Grande Imam Al-Ahar il documento sulla fratellanza universale (4 febbraio 2019), conia il concetto di “patto educativo globale” come un mandato affidato agli adulti, alle istituzioni educative e alle personalità pubbliche nonché a tutte le espressioni religiose “per promuovere insieme quelle dinamiche che danno un senso alla storia e la trasformano in modo positivo”. Immersi in un cambiamento epocale che provoca non solo una mutazione culturale ma anche antropologica e scarta, senza discernimento, i paradigmi consegnatici dalla storia, c’è bisogno di unire gli sforzi in un’ampia alleanza educativa per formare persone mature capaci di ricostruire il tessuto di relazioni per una umanità più fraterna.
Cosa significa educare e formare all’impegno per una cittadinanza attiva e responsabile?
Uno degli obiettivi indicati dal patto educativo è quello di formare persone disponibili a mettersi al servizio della comunità, del bene comune, in altre parole a diventare cittadini attivi e responsabili all’interno della comunità civile di appartenenza ma avendo uno sguardo aperto sulle sfide del mondo. Mi ha colpito, a tale proposito, la coincidenza del messaggio pontificio con la pubblicazione dell’ultimo Rapporto della Commissione internazionale dell’UNESCO per i prossimi decenni, dal titolo: Re-immaginare i nostri futuri insieme. Un nuovo contratto sociale per l’educazione (dicembre 2023). Il documento afferma che l’educazione è il cardine per il rinnovamento e la trasformazione delle nostre società in quanto mobilita la conoscenza e aiuta a navigare in un mondo in trasformazione e incerto. «Il potere dell’educazione risiede nella sua capacità di metterci in contatto con il mondo e con gli altri, di farci andare oltre gli spazi che già abitiamo e di esporci a nuove possibilità. Ci aiuta ad unirci in sforzi collettivi: fornisce la scienza, la conoscenza e l’innovazione di cui abbiamo bisogno per affrontare le sfide comuni e a garantire futuri più inclusivi dal punto di vista sociale, più equi sul piano economico e più sostenibili a livello ambientale».
La diplomazia ha sempre avuto un ruolo fondamentale nel risolvere i conflitti. Quale diplomazia percorre papa Francesco con il suo magistero?
Quello di risolvere i conflitti è certamente uno dei principali scopi della diplomazia per garantire i diritti di tutti, nella giustizia e nella pace. La Santa Sede intrattiene relazioni diplomatiche con oltre 180 Paesi e molti organismi internazionali, avendo una rete di rapporti che viene costantemente alimentata con incontri e scambi di informazioni. Ogni intervento del papa – discorsi, documenti ufficiali, messaggi – viene canalizzato in questa rete per trasmettere il pensiero della Chiesa. Accanto a questo hanno grande importanza le frequenti visite private degli ambasciatori o anche interventi su situazioni particolari, come è avvenuto per l’Ucraina e per la striscia di Gaza. Ai rapporti diplomatici in senso proprio, vanno considerati le numerose altre forme di relazioni che il papa indirettamente segue attraverso i Dicasteri della Curia Romana; penso in particolare a quello per il dialogo interreligioso, per l’ecumenismo, per lo sviluppo umano integrale, per la comunicazione. Anche la Biblioteca Apostolica Vaticana, in cui opero, svolge una efficace diplomazia della cultura
Papa Francesco parla di una «terza guerra mondiale a pezzi», eppure (nonostante l’evidenza dei fatti) rimane inascoltato. Perché accade questo?
Perché chi governa oggi sceglie il monopolio della forza come base di uno Stato e si ispira ad una cultura immanente che esclude la dimensione trascendente della persona umana. Una simile visione antropologica, appiattita sui valori materiali, induce al relativismo, al contrattualismo, al tecnicismo, all’interesse privato, personale e particolare, escludendo il valore del bene comune che permetterebbe di risanare le malattie sociali che infettano l’umanità. Sono interessanti le espressioni usate dal papa nel suo viaggio in Bahrein (4 novembre 2022): «Desideriamo che le liti tra Oriente e Occidente si ricompongano per il bene di tutti, senza distrarre l’attenzione da un altro divario in costante e drammatica crescita, quello tra Nord e Sud del mondo. L’emergere dei conflitti non faccia perdere di vista le tragedie latenti dell’umanità, come la catastrofe delle disuguaglianze… la vertiginosa piaga della fame e la sventura dei cambiamenti climatici».
L’avvenire appare minaccioso, privo di una prospettiva positiva, a livello personale e collettivo. Dobbiamo perdere la speranza?
Sin dall’inizio del suo pontificato, Francesco ci ha ricordato che il pensiero sociale della Chiesa è in primo luogo positivo e propositivo, orienta un’azione trasformatrice e in questo senso non cessa di essere un segno di speranza. E la vera speranza, che cerca il Regno escatologico, non è disincarnata ma è fonte di ispirazione e creatività che porta ad incidere con efficacia anche nelle complesse situazioni odierne e genera sempre storia. L’esortazione che viene dalla dottrina sociale della Chiesa è l’impegno per un’educazione socio-politica animata dalla capacità utopica, che non è un alibi per sfuggire alle responsabilità immediate, ma si riferisce ad una immaginazione prospettica, capace di individuare nel presente potenzialità trascurate e di elaborare progetti lungimiranti di trasformazione della società. I giovani sono molto sensibili a questo e attendono risposte dagli adulti. Per questo il papa chiede soprattutto ai giovani di sentire la responsabilità nel costruire un mondo migliore trovando insieme soluzioni, avviando processi di trasformazione senza paura e guardando al futuro con speranza.
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