Il ciclo mestruale nel corto bresciano in lizza per gli Oscar
In classe, alle medie, appena prima dell’interrogazione. Una ragazzina si accorge di essersi sporcata di sangue per la prima volta, ma fra poco tocca a lei salire in cattedra. La vediamo andare nel panico, mentre studia tutte le possibili vie di fuga. Niente da fare, si deve alzare fra le risate di scherno dei compagni. Lei però decide di raggiungere comunque la lavagna e da quel palcoscenico osserva la scena a testa alta, nonostante il professore la inviti ad andare in bagno. Come una Wonder Woman in miniatura.
In sei minuti «My Time» affronta e sfonda quello per cui è nato: i tabù sulle mestruazioni.
A firmare questo cortometraggio, finito di girare esattamente un anno fa, è la regista bresciana Giulia Gandini, 25 anni, di casa a Londra da sei. Dopo il diploma al liceo cittadino Arnaldo, gli studi in letteratura e cinema e un master in regia alla Met Film School di Londra, la giovane Gandini è ora in tour attraverso gli Stati Uniti, dove «My Time» sta collezionando premi ai festival internazionali. E oltre ad aver ricevuto il Best Short Film Award al National Film Festival for Talented Youth di Seattle a fine ottobre, e altri tre riconoscimenti europei, è arrivata ad aggiungersi in questi giorni la notizia più clamorosa: il corto bresciano è entrato nella long list per gli Oscar del 2020 nella categoria Short Film Live Action.
«E dire che tutto è partito da una mia esperienza traumatica alle medie», commenta Gandini. Giulia, il cortometraggio sta viaggiando veloce per il mondo.
Ma da dove arriva «My Time»? Sono cresciuta con l’idea che il ciclo fosse qualcosa da tenere per me e di cui vergognarsi, dopo che una mia compagna di classe aveva subito atti di bullismo per aver sporcato la sedia. Quando ho iniziato a scrivere la sceneggiatura pensavo fosse un mio concept molto personale, rimastomi impresso per anni. E invece ho scoperto che era un tema molto sentito da moltissime persone.
Come è stato affrontarlo sul set? Il mio obiettivo era trasformare un’esperienza vissuta come negativa in un messaggio positivo e condivisibile, anche un po’ spudorato. In questo è stato fondamentale il confronto con Clara Read, la giovane attrice protagonista che al momento di girare aveva 13 anni. Ne è nata un’esperienza empowering, di presa di consapevolezza innanzitutto per noi stesse.
Come hanno reagito le persone che hanno visto il corto durante i festival? A Londra, in Svezia, in Irlanda, negli Usa… Tanti adulti mi hanno detto che avrebbero riconsiderato il loro approccio al ciclo con i figli, i giovani hanno apprezzato il rapporto positivo e aperto con il ciclo. Ma non per tutti è stato così. Anzi, alcuni festival hanno rifiutato di proiettare «My Time» perché hanno considerato inopportuna la vista del sangue. Oggi si sente parlare di menstrual activism, ma c’è ancora molto da fare. Basta pensare che i prodotti mestruali sono ancora tassati, sia in Italia sia in Inghilterra. Un tampone non è un bene di lusso, ma pare proprio che il concetto non passi.
E poi c’è un problema di educazione: il 48% delle ragazzine inglesi afferma di provare ancora imbarazzo per il proprio ciclo. Le scuole possono intervenire, ma ci vuole un impegno radicale. Anche per questo motivo stiamo partecipando a molti festival per bambini con «My Time» e spesso devo spiegare ai piccoli cosa sono le mestruazioni! Ma il corto nasce per questo: voglio che chi lo vede maturi un orgoglio per il proprio ciclo, che i giovani smettano di vergognarsene. Prima di «My Time» c’è stato l’altro tuo corto, «AlRight».
E ora? Il mio sogno è diventare regista di film per la televisione. La fiction, la narrativa, è la mia grande passione. Fra poco comincerò a lavorare a due cortometraggi, uno di fiction intitolato «Runner» e un altro di documentaristica, «Home Stream», supportato dalle Nazioni Unite e dal British Film Institute, che parla di homelessness ed è girato direttamente su iPhone da una donna senzatetto.
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