I cento anni della Marcia su Roma: anche Brescia fu sottoposta ad un attacco militare

«O ci daranno il Governo o ce lo piglieremo noi calando su Roma»: con queste parole Benito Mussolini il 25 ottobre 1922 preannunaciava i fatti del 28, quando alle minacce retoriche seguirono i fatti. Da diverse parti del Paese, decine di migliaia di squadristi fascisti, occuparono con la violenza gli edifici pubblici e si diressero verso la capitale, in quella che passò alla storia come la Marcia su Roma, di cui oggi ricorre il centenario. Una data che segnò la nascita del regime fascista, che cambiò la storia del Novecento in modo irriversersibile.
Storia
A lungo la marcia su Roma è stata considerata un bluff e non piuttosto un avvenimento a forte impatto politico. Le aggressioni squadristiche, le violenze esercitate, le intimidazioni contro gli avversari a lungo sono state sottovalutate, sino al paradosso che la loro portata e il significato che hanno assunto, disvelando il volto antidemocratico e la natura antiliberale del fascismo, sono state inserite in chiave propagandistica nel calendario del regime, come forme di eroismo, come meritorio esempio di lotta ai socialcomunisti e ai popolari sturziani. In realtà la marcia su Roma ha di fatto costituito l’inizio della dittatura, il momento della frattura con la continuità dello Stato, come ormai persuasivamente sostenuto dagli studiosi che si sono impegnati in una ricostruzione suffragata da probanti supporti documentari, non ultimo il bresciano Mimmo Franzinelli.

Prospettiva bresciana
Anche Brescia, dopo le prove generali della manifestazione tenuta il 24 ottobre 1922 a Napoli, dove convergono quarantamila camicie nere, vede un’accelerazione dei preparativi in vista di una mobilitazione delle squadre - la «Mussolini», la «Corridoni», la «Angiolino Bozzi», la «Lupi», la «Disperata», la «Me ne frego» - alla conquista di città e provincia, peraltro già sottoposte, soprattutto la Bassa, a ripetute incursioni condotte «in grande stile», come si legge su La Fiamma, l’organo di stampa fascista. È Augusto Turati, l’esponente più in vista del fascio bresciano, in costante collegamento con Cesare Forni, comandante della zona settentrionale, ad impartire le disposizioni, la mattina del 28 ottobre, per l’assalto definitivo, qualora «le sorti della battaglia nazionale appaiano incerte». I luoghi di concentramento in cui vengono strategicamente fatte confluire le «coorti» sono Bagnolo, Calvisano, Desenzano e Brescia, cui si aggiunge Iseo, dove si raduna la «centuria» della valle Camonica.

L'organizzazione
Dunque un piano che, prendendo le mosse da questi punti nevralgici, ha di mira l’intera provincia. In città gli obiettivi privilegiati dell’attacco fascista, condotto «manu militari», sono costituiti dalla Casa del popolo di via Marsala e dall’organo di stampa del Ppi, il Cittadino, situato in quel palazzo San Paolo che rappresenta il quartier generale del movimento cattolico. L’occupazione delle sedi e la loro devastazione, nella latitanza della forza pubblica che si adegua agli ordini impartiti dalla capitale - il prefetto Achille De Martino, uno tra i pochi funzionari deciso ad arginare la violenza, è spogliato dalle sue prerogative -, non sono che l’avvio di una serie di scorribande ed iniziative squadristiche. Esse vengono condotte contro singoli esponenti politici - i socialisti Maestri e Viotto, i popolari Bulloni e Castagna -, contro circoli dei lavoratori a Borgo Trento e Porta Milano, contro abitazioni di militanti sindacali, estendendosi in provincia dove sono devastati gli uffici periferici della Camera del Lavoro e assaltati numerosi municipi per ottenere le dimissioni delle locali amministrazioni.

Repressione
Nei confronti di chi reagisce - in città sussulti di resistenza popolare si verificano al Carmine - si spara all’impazzata, uccidendo una donna e ferendo una decina di civili. Cade in circostanze oscure il 30 ottobre - la mobilitazione delle camicie nere si protrae per quattro giorni - anche un giovane squadrista, Giuseppe Pogliaghi, nel corso dell’assalto portato al Circolo panettieri dove ha sede la redazione del settimanale socialista Brescia Nuova. Augusto Turati, a battaglia finita, lodando «l’eroismo dei combattenti fascisti» celebra il «trionfo ottenuto».

«Abbiamo distrutto coscientemente» scrive il 4 novembre: «Domani riscostruiremo col cuore che soffre, ma con polso che non trema». Espressioni di una retorica che ammanta un disegno i cui sviluppi successivi e i cui esiti finali la storia ha irrevocabilmente sanzionato. A sua volta Marziale Ducos, il leader del liberalismo moderato bresciano, si trova ad annotare che «quanto è avvenuto è l’ultima fase di un movimento rivoluzionario nel quale siamo cresciuti e abbiamo respirato senza avvedercene». In sostanza un «de profundis» che bene rende il senso di impotenza e la condizione di resa di una classe dirigente locale ormai rassegnata e soccombente al fascismo.
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