Gli abiti di Marilyn dicono del suo disperato bisogno di amore
Nel sessantesimo anniversario dell’uscita (29 marzo 1959) di «A qualcuno piace caldo», uno dei suoi film più noti, Marilyn Monroe si conferma presenza indimenticabile nell’immaginario collettivo. In questi giorni è infatti al centro di vari eventi: mostre fotografiche; l’annuncio di una futura serie tv dal romanzo «Marilyn 1962» di Sébastien Cauchon e della cine-biografia «Blonde» dal libro di Joyce Carroll Oates, che la vedrà impersonata dalla cubana Ana de Armas di «Blade Runner 2049»; le pseudorivelazioni di Gianni Russo, attore de «Il padrino», sulla sua tragica fine.
Segni dell’immutata forza della sua iconica essenza, pur 57 anni dopo la sua misteriosa morte, a soli 36 anni, il 5 agosto 1962. E domani, 11 aprile, esce in libreria «Iconic Marilyn. Vita, passioni e fascino in uno stile unico oltre le mode» (ed. Centauria, Milano; 135 pagine più bibliografia; 19,90 euro) di Massimiliano Capella, docente di Storia del costume e della moda nonché direttore di Arte Moda Archive all’Università di Bergamo.
Nato a Brescia 47 anni fa, ma residente a Barcuzzi di Lonato, così ne parla: «Fa parte d’un trittico che per Centauria mi ha visto già raccontare Frida Kahlo e Maria Callas attraverso l’abbigliamento e l’essere state modelli di stile. Di Marilyn quest’aspetto non era ancora stato approfondito: con note biografiche è oggetto del libro».
Capella sottolinea l’aspetto psicologico del rapporto della star con gli abiti: «Il motivo scatenante della sua ricerca estetica sta nel vissuto: l’abbandono nell’infanzia, l’angoscia della solitudine; da cui la ricerca disperata di piacere, di sedurre, d’essere accolta. Anche attraverso abiti che, alle prove, imponeva ossessivamente di "stringere, stringere!" in un vestirsi per spogliarsi e spogliarsi vestendosi, come una seconda pelle che non la lasciava mai nuda, ne esaltava le forme ma la velavano quanto bastava».
Già, la Dea Bionda che cantava «I wanna be loved by you» e sembrava si rivolgesse non già a tutti bensì a ciascuno. Colei che ammise con amarezza: «Ho indossato Marilyn come un velo, sopra Norma Jeane».
Fu Emmelin Snively, direttrice della Blue Book Model Agency, a guidare la trasformazione di quella che era fin lì una delle tante pin up, in una futura diva: «Bisogna creare un personaggio a livello estetico» disse, e Norma assentì. L’ammaliatrice di folle, cineprese e foto-obiettivi (il 5 aprile sono stati 20 anni dalla morte di Sam Shaw che la ritrasse con la gonna svolazzante sul set di «Quando la moglie è in vacanza») è stata la prima a credere nel «made in Italy»: «All’epoca - spiega Capella - era la moda francese a dominare, ma lei anticipò il successo di quella italiana. Pur non avendo mai incontrato personalmente gli stilisti, che la servivano inviandole tessuti e bozzetti da scegliere e poi creavano sul manichino dalle sue fattezze, portò alla ribalta Emilio Pucci, un giovane Roberto Capucci e le calzature di Salvatore Ferragamo. Riconobbe negli stilisti italiani l’originalità ed eleganza sensuale che altri avrebbero scoperto solo più tardi. Arrivò a disporre di venire sepolta con un abito di Pucci, com’è poi avvenuto».
Nel saggio si raccontano anche il vestito bianco plissettato creato da William Travilla, che il 3 giugno 1955 si sollevò per l’aria spinta su da una grata dal metrò in transito nella scena-cult di «Quando la moglie è in vacanza»; e lo «Skin and beads dress» del costumista Jean Louis, letteralmente cucitole addosso senza biancheria, indossato il 19 maggio 1962 al Madison Square Garden cantando «Happy birthday» a John Fitzgerald Kennedy. «Sono i due più iconici, venduti poi all’asta per 5,5 e 4,8 milioni di dollari - ricorda Capella -. Di Marilyn mi ha colpito il contrasto tra immagine seducente, da sogno erotico, e il suo candore; l’essere pudica anche nel suo bisogno istintivo di nudità. Un’anima timida e fragile».
Non a caso, cogliendone l’essenza dietro il sex symbol, Pier Paolo Pasolini nel ’63 scrisse che «sparì come una colombella d’oro» e Truman Capote la definì «una bellissima bambina». No, non era era l’abito a fare Marilyn, ma il contrario...
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