Cultura

Giovanni Repossi e il «mestiere» della pittura

Una carriera cominciata dall’apprendistato con Achille Funi, lo studio e poi la docenza a Brera.
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Si è spento nel suo giardino, in una mattina di sole. Come se per un qualche presentimento avesse voluto ritrovare quello spazio allo stesso tempo aperto ma concluso, quel recinto affollato dalla memoria («Giardini della memoria» intitolò un ciclo di opere negli anni ’80) che fu uno dei temi della sua pittura.

Giovanni Repossi, classe 1929, iniziò a dipingere negli anni appena dopo la guerra (si iscrisse al liceo di Brera attorno al 1947, frequentando poi l’Accademia di cui sarebbe diventato docente di Decorazione e in seguito direttore) attraversando le stagioni del neocubismo, dell’informale, restando a margine del pop e del concettuale, sempre fedele ad una pittura radicata nella figurazione - il ritratto, la natura morta, soprattutto il paesaggio - come germe su cui innestare una riflessione sulla memoria, e sempre intesa come «mestiere».

Mestiere appreso sui ponteggi degli affreschi condivisi a Milano con il suo maestro Achille Funi (e prima ancora osservando il lavoro del padre Pietro, scultore di vaglia, e di Matteo Pedrali a Palazzolo) e perpetuato fino ad anni recenti nelle pitture murali realizzate per il Municipio e l’Ospedale della propria città, oltre che per Coccaglio, Pezzaze e Calcio. Sui quei muri Repossi raccontò vita e sentire delle comunità, dispiegando nella solidità ancora novecentista delle figure i simboli della solidarietà e della storia municipale. Quello stesso sentire che si legge in uno dei primi dipinti, «Il mercato a Rovato», esposto nell’ultima antologica allestita nella sua Chiari, a cura di Mauro Corradini, chiusa un paio di settimane fa.

Già dagli anni Sessanta, la ricerca di Repossi si fa sperimentale. Prima le «mappe», poi i «paesaggi combusti» degli anni Settanta, infine il divisionismo e gli acquerelli luminosi del decennio successivo, sono altrettante tappe di un’indagine sul paesaggio che vuole restare aderente al dato di realtà senza adagiarsi in un tradizionalismo di maniera. Repossi si avvicina all’informale (le mappe-griglie, i paesaggi come universi esplosi) per recuperare poi una sostanza figurativa che trova la propria apertura metafisica nutrendosi di memoria, mito, simbologie, in un intreccio tra la storia personale e il flusso della grande arte europea.

È la stagione dei grandi dipinti simbolisti, nei quali Repossi individua e sviluppa temi ricorrenti: il giardino chiuso (memore del parco recintato di Villa Mazzotti a Chiari, luogo misterioso e inaccessibile della fanciullezza), la stanza (misurata dalla geometria delle mattonelle, abitata da donne inavvicinabili), il labirinto, il bosco oscuro, la maschera (la «venditrice di maschere» torna nel dipinto murale per il Municipio di Chiari, enigmatico personaggio uscito dai recessi della memoria), il mito classico, e soprattutto l’«Isola dei morti» di Böcklin, icona del Surrealismo ottocentesco, replicati e assemblati in continue varianti. Nell’ansia di affrontare l’enigma della vita, e di risolverlo con lo strumento che aveva a disposizione, quell’arte che mette in comunicazione la quotidianità con l’assoluto.

Sogno, ricordo, realtà si mescolano in un mondo che resta tutto interiore, anche quando appare immerso nella natura. Anche nei recenti acquerelli ispirati all’Irlanda, è il ricordo del viaggio a nutrire l’abbaglio del colore. E nel riflesso di luce, le terre del nord si confondono con le torbiere del Sebino, attraversate da ragazzino in bicicletta.

Giovanna Capretti

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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