Gazich, dall’ex manicomio di Venezia un altro album capolavoro
Se ritenete che la musica non debba essere solo intrattenimento, ma possa assurgere a verità ed arte, preparatevi ad un (altro) album-capolavoro di Michele Gazich. Abbiamo ascoltato «Temuto come grido, atteso come canto», il disco - scritto nell’ex manicomio di Venezia, sull’isola di San Servolo - che verrà pubblicato il 7 settembre.
Dopo un’apnea di profondità e commozione ne siamo usciti toccati, ammirati, grati. Perché questo nostro «scrittore di canzoni» ha coniugato l’urgenza con la sua vasta cultura. Ha prestato l’orecchio e il cuore al grido che saliva da cartelle cliniche dimenticate e solo ora desecretate. Ha messo carne e sangue sul «burocratichese» freddo e disumano. Ha guardato negli occhi i volti delle foto allegate alle schede e ha lasciato che la «pietas» gli togliesse il sonno. Ha deciso che uomini e donne ridotti ad una classificazione con numeri progressivi dovessero tornare ad essere persone. Non ha avuto paura di pronunciare, prima di tutto per se stesso, la parola «missione». Ha annodato i racconti con riferimenti «alti», letterari e filosofici (a cominciare dal titolo, tratto da Michel Foucault): non per sfoggio, ma perché c’è bisogno, anche e soprattutto oggi, di coordinate.
Gli undici brani, già lo avevamo anticipato, narrano - per la prima volta - degli ebrei che nell’ottobre 1944 furono deportati dall’isola lagunare. Ed è proprio al Museo Ebraico, nello storico ghetto di Venezia, che l’album debutterà domenica prossima, 2 settembre, in occasione della Giornata europea per la Cultura ebraica. Più avanti, sarà il nostro giornale ad ospitare - venerdì 21 settembre, alle 18, nella Sala Libretti - la prima presentazione a Brescia, alla quale interverrà lo scrittore Enrico Mottinelli. Una sede adeguata non solo per ascoltare alcuni estratti in musica, ma anche per approfondire le storie di cui Gazich ha voluto farsi testimone. Storie, peraltro, già riportate in modo dettagliato nel libretto interno (arricchito dalle icastiche xilografie di Alice Falchetti, declinate in una chiave legata all’espressionismo tedesco).
Dopo un prologo che adatta versi del «Filottete» di Sofocle, archetipo dell’eroe confinato su un’isola, ecco dunque sfilare - tra nomi di fantasia e destini, purtroppo, concretissimi - la «Alice» (perché ha 58 anni, ma si sente una bambina) che «vive bloccata, corda e corridoio», la «Debora» presaga che sente le voci dei morti, la donna ossessionata che a Michele ha ricordato i tormenti della poetessa Sylvia Plath, l’uomo che ha subito il supplizio di 26 elettroshock... Accanto alle vittime, il carnefice: il medico, ribattezzato «Torquemada», per descrivere il quale sono sufficienti le sue stesse diagnosi, intrise di sadismo e antisemitismo...
L’album si chiude con «Anna, te scrivo». La lettera all’amata di un ricoverato esemplare, che proprio per questo spera di poter essere un giorno dimesso. Sembrerebbe una conclusione di speranza, e forse lo è. Ma anche quell’uomo è finito a San Sabba. E Michele Gazich non ci lascia con la carezza della consolazione. La verità non può e non deve fare sconti.
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