Francesco Costa: «Nei podcast ci metto la voce, ma anche la faccia»
Caffè, brioche e una sigla fatta con l’assolo di chitarra di «Gimme Shelter» dei Rolling Stones. Migliaia di persone iniziano così la giornata. Sono gli ascoltatori - in crescita - di «Morning», il podcast del giornalista Francesco Costa, 38 anni, che dal lunedì al venerdì fa una rassegna stampa ragionata dei giornali italiani. Un mezzo nuovo, il podcast, per fare una cosa vecchia, cioè selezionare e proporre le notizie del giorno.
Da maggio del 2021, il vicedirettore del giornale online Il Post punta la sveglia alle 4.45 e per un’ora e venti legge sul tablet le testate nazionali. Poi si mette davanti al microfono, registra, monta e pubblica. Puntata online alle 8, se non qualche minuto prima: «Morning» può essere ascoltato solo sull’app del Post ed è un contenuto riservato agli abbonati.
Abbiamo intervistato Francesco Costa a pochi giorni dal suo intervento al festival «Cult-cura festival»: l'appuntamento è domenica 4 settembre alle 20.30 in piazza Trento a Bione, dove il vicedirettore de Il Post dialogherà con Nunzia Vallini, direttrice del Giornale di Brescia e di Teletutto.
Agli Italian Podcast Awards, si è aggiudicato quattro premi: Miglior podcast dell’anno, Miglior podcast di news, Miglior host e Premio del pubblico. È stata una sorpresa?
Sì, ero incredulo. Quando ho iniziato non mi aspettavo potesse andare così bene, non era scontato. Anche perché, diciamolo, non ho inventato niente. In redazione abbiamo scelto di provare, perché era una sfida e perché il formato audio risponde ai bisogni delle persone che vogliono informarsi ma non sempre hanno abbastanza tempo. Tantissimi hanno scelto di abbonarsi al Post per poterlo ascoltare.
Allora non è vero che alla gente non interessa più informarsi.
I giornali fanno un lavoro straordinariamente utile, possono contribuire a cambiare la società. Tutti vogliono sapere cosa succede nel luogo in cui vivono. In «Morning» offro uno sguardo critico che non è per gli addetti ai lavori, ma per i lettori. Spiego cosa c’è dietro un titolo, una scelta di impaginazione, cerco di raccontare le differenze tra un giornale e un altro, proponendo spunti di riflessione.
Non c’è il rischio di sembrare un antipatico con il «ditino alzato», commentando il lavoro degli altri?
I giornalisti criticano i colleghi alla scrivania, mai pubblicamente. Siamo corporativi. Se non sono d’accordo con una scelta, però, il mio non è mai un attacco personale. Non ci tengo a rendermi insopportabile, mi interessa rendere consapevoli gli ascoltatori.
Per questo la sua regola aurea è «mai twittare»?
Un consiglio che io per primo non seguo; e ogni tanto ci casco (ride ndr). Siamo la prima generazione che ha la possibilità di dire sui social quello che ci passa per la testa, al mondo intero. Non credo sia sempre necessario né che sia una buona idea. Di solito il giorno dopo ce ne si pente.
A proposito di social, lei ha 285mila follower su Instagram. Quanto serve metterci la faccia?
Molto. Mi accorgo che chi mi segue sui social, dove racconto molto della mia vita professionale e poco di quella privata, ha la sensazione di conoscermi. È complesso da gestire, perché io non so nulla di loro. Il rapporto di fiducia che si crea però è prezioso. Anche in questo caso, non ho inventato niente. Prima di me altri hanno associato una voce a una faccia: Michael Barbaro di «The Daily» del New York Times o Joe Rogan, per dirne due.
Quanto conta il dialogo con il pubblico?
Creare una community fa la differenza. Gli ascoltatori mi scrivono, commentano, segnalano errori: io leggo tutto, a costo di compromettere la mia salute mentale (ride ancora, ndr). Questo podcast lo faccio insieme a loro: a me serve ricevere le critiche così lavoro meglio, al tempo stesso mi consente di mostrarmi vulnerabile. Mi prendo lo spazio per poter sbagliare.
Al Post avete puntato parecchio sui podcast. Perché?
Sono uno strumento efficace: usare la voce è immediato e consente di informarsi anche mentre si sta facendo altro. Di sicuro avranno un posto sempre più rilevante nel mercato dell’editoria, che non è esattamente in forma smagliante.
Ma i podcast non rischiano di essere una grande bolla?
La possibilità c’è: tanti si aspettano di fare soldi con i podcast, anche di intrattenimento. Vedo fare investimenti, ma non mi sembra di registrare per ora un gran movimento. Il pubblico dei podcast, per quanto in crescita, è ancora piccolo. Me ne accorgo quando nella puntata del venerdì ne consiglio uno che mi è piaciuto: spesso in poche ore diventa primo in classifica. Non è un segno di salute del mercato.
Tra le altre cose, ha trovato il tempo di scrivere il suo terzo libro sugli Stati Uniti.
Sì, «California» (Mondadori, 204 pagine, 18,50 euro). Esce il 13 settembre. Parla del perché, nonostante l’economia in crescita, la piena occupazione e le migliori università del pianeta, molti dei suoi abitanti decidano di lasciare lo Stato del sogno americano.
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