Cultura

Fotografia: McCurry ovvero "Mister Normalità"

L'intervista all’autore di immagini iconiche tra cui la Ragazza Afghana. Alla Galleria L'Incisione un'antologica fino al 22 dicembre
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Non è vero che ci vuole un fisico bestiale. Non, almeno, per essere un gigante della fotografia. Guardi Steve McCurry, 63 anni, un metro e sessanta a farla lunga, calvizie d’ordinanza e baffi grigi, e capisci che l’arte del fotografare dicendo qualcosa e di dire qualcosa fotografando non richiede prestanza, ma - per dirla con Henri Cartier-Bresson - mente, occhi e cuore in linea.

E l’autore di immagini iconiche tra cui la Ragazza Afghana (originale recentemente aggiudicato all’asta di Christie’s New York per 178 mila $), o l’uccello morente ricoperto di petrolio sulla costa saudita nella prima Guerra del Golfo, o gli scheletrici resti delle Torri Gemelle, quell’allineamento lo ha e pratica da sempre.

Oltre, ovvio per un fotoreporter di tale caratura, a tanto coraggio. Ma senza tirarsela. Come McCurry dimostra - al Museo di scienze naturali di Brescia - parlando coi giornalisti prima dell’incontro pubblico curato dalla Galleria L’Incisione (che in via Bezzecca 4 gli dedica un’antologica fino al 22 dicembre).

C’è ancora spazio, chiediamo, per il reportage, vista la scomparsa (National Geographic, con cui lui collabora da decenni, a parte) delle foto-riviste che ne hanno fatto un mito? Mister Normalità (ma genialità fotograficamente parlando) risponde: «Sì, assolutamente. Tante testate hanno chiuso, ma il buon reportage troverà sempre spazio. Il mondo cambia e oggi c’è il web che è uno spazio infinito in cui i fotografi possono mostrare i loro lavori».

Sul fotografare sottolinea: «La foto è un attimo, ma chiede tempo e significa trasmettere un messaggio. Il mio scatto preferito? Non ne ho: ciascuno, quando l’ho fatto, aveva il proprio senso. Si dice che oggi tutti fanno foto: vero, ma tutti noi possediamo una penna per scrivere eppure non tutti scriviamo romanzi. Avere uno strumento per far foto, in sè, significa nulla se non hai qualcosa da dire e non lo fai bene».

Quanto agli abusi di photoshop e di post-produzione agli scatti, lui che è tranquillamente convertito da anni al digitale, ma è anche colui al quale la Kodak ha affidato nel 2010 il compito simbolico di scattare l’ultimo rullino analogico della Kodachrome 64, non è tranchant: «Dipende - sorride -. Personalmente io credo si debba mostrare ciò che si è visto nel mirino quando si è scattato. Ci sono giornali che in materia hanno un’etica rigorosa, di solito quelli d’informazione; ma diverso è il discorso per immagini per la moda e la pubblicità. Comunque ci vuole sempre onestà e sincerità».

È un concetto-base, specie se enunciato da chi ha firmato l’anno scorso il Calendario Pirelli più elegante della cinquantennale storia, immortalando sì bellezza e fascino femminili, ma soprattutto il mood di Rio de Janeiro: «Che esperienza è stata? Beh, fotografare belle donne è un piacere, ma il mio scopo era sì fare bei ritratti della modella di turno, ma far uscire anche... l’altra modella, Rio. È stato come preparargli un buon pranzo: ingredienti luce, bellezza, luogo e momento giusto per scattare... Il talento espressivo delle modelle mi ha aiutato, sapevano come interagire con l’obiettivo. Insomma - ridacchia sotto i baffi - è stato facile, tranne quella sera che, tra l’altro in quartiere malfamato, sul set è caduta una pioggia torrenziale: ormai eravamo lì, dovevamo scattare e ho temuto che la modella non se la sentisse; invece ne sono uscite immagini riuscitissime».

Pioggia: un pericolo da ridere per uno che nel 1989, mentre scattava sul lago Bled in Slovenia da un aereo, è sopravvissuto per miracolo alla caduta del velivolo; e un’altra volta, nel 1993, vicino a Bombay, fu quasi linciato mentre ritraeva la processione con la statua della divinità elefantesca Ganesh.

«I pericoli più grossi - ammette - li ho corsi in Afghanistan (la prima ci andò clandestinamente nel 1979 - ndr): non ti ci puoi avventurare senza una guida-traduttore, è un ambiente molto molto complicato». Semplice, invece, è il credo fotografico di McCurry: «Porto sempre grande rispetto per i soggetti nel mio obiettivo. I rapporti possono essere vari, ma non mi sono mai sentito ladro di immagini. E per questo molti sono gli scatti che ho scelto di non fare. Ma non ho rimpianti: ci sono sempre nuove opportunità, un milione di occasioni per fare foto». E una soltanto, lasciate dire, di farle come Steve McCurry.

Francesco Fredi

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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