Cultura

Messinese: «Il pensiero filosofico non può mai incidere nell’immediato»

Francesco Mannoni
Il saggista, ordinario di Metafisica a Roma nella Università Lateranense, in «Emanuele Severino: il destino e il mortale» a cinque anni dalla scomparsa, racconta limpidamente il filosofo bresciano
Leonardo Messinese - Foto New Reporter Favretto © www.giornaledibrescia.it
Leonardo Messinese - Foto New Reporter Favretto © www.giornaledibrescia.it
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Ci sono saggi che raccontano i personaggi, qualunque sia il loro ruolo, in ambiti quasi astratti; il professor Leonardo Messinese, saggista, ordinario di Metafisica a Roma nella Università Lateranense, in «Emanuele Severino: il destino e il mortale» (Feltrinelli, 304 pagine, 18 euro) a cinque anni dalla scomparsa, racconta limpidamente il filosofo bresciano (Brescia, 26 febbraio 1929-17 gennaio 2020) in tutta la sua statura umana e intellettuale. Il libro, in 14 capitoli, analizza negli aspetti più appassionanti la sua opera, già approfondita anche in altri saggi (ricordiamo «Nel castello di Emanuele Severino», Inschibboleth, Roma 2021).

Professor Messinese, qual è la chiave che ha consentito a Severino di mostrare l’errore del nichilismo dell’Occidente?

La chiave sta in una messa a fuoco del modo in cui la filosofia greca ha pensato l’«esser cosa» di ognuna delle cose. Tale modalità consiste nell’assegnare alle cose l’essere grazie alla loro «produzione», prima divina e poi umana; e, pertanto, nel legare il senso di ciò che è alla volontà della potenza produttrice, alla «volontà di potenza». Tuttavia, stante la convinzione che gli enti comincino ad essere e siano destinati al nulla, quella stessa potenza soggiace all’angoscia inerente al loro venir meno, così che il mortale è andato alla ricerca del «rimedio» che possa salvarlo da tale angoscia. Il pensiero tradizionale aveva ritenuto di averlo trovato nell’elevarsi all’Essere immutabile in cui ogni cosa è salva; il pensiero contemporaneo si affida, piuttosto, al paradiso dell’Apparato scientifico-tecnologico, la cui capacità di salvezza autentica risulta, però, illusoria».

Quali sono i maggiori contatti tra Parmenide e Severino e che cosa intendeva lui per «Ritornare a Parmenide»?

Il rapporto di Severino con Parmenide spesso è stato frainteso, tanto che si è parlato di «neoparmenidismo» per definire il suo pensiero. In realtà, per Severino non si tratta di «ritornare a Parmenide» per essere neoparmenidei, quanto piuttosto per liberare la sapienza che è conservata nei frammenti del filosofo di Elea riguardo alla verità che concerne «ogni» ente. L’eternità dell’essere, quindi, non è l’eternità che squalifica gli enti a puri «nomi» dell’essere e non è neppure l’eternità che riduce il loro divenire a mera «apparenza», ma è l’impossibilità di non essere per ogni ente. È in questa tesi essenziale che risiede il senso più profondo dello scritto «Ritornare a Parmenide».

Il filosofo Emanuele Severino nel 2019 - Foto New Reporter Favretto © www.giornaledibrescia.it
Il filosofo Emanuele Severino nel 2019 - Foto New Reporter Favretto © www.giornaledibrescia.it

La critica di Severino nei confronti della fede cristiana, da lei già studiata nel saggio «Né laico, né cattolico. Severino, la Chiesa, la filosofia» (Dedalo, 2013), come si colloca oggi dopo la sua scomparsa?

L’espressione da lei ricordata si riferisce alla seconda fase del suo pensiero, allorquando egli era pervenuto a stabilire la non verità della fede cristiana in relazione alla struttura originaria della verità, ma anche delle forme di «organizzazione del divenire» che si sono emancipate dalla fede cristiana. Restringendomi qui al Cristianesimo, in una prima fase Severino aveva prospettato una teorizzazione del rapporto tra fede e ragione secondo cui, per un verso, era rilevata un’aporia che avvolge il filosofo credente, ma per un altro verso s’indicava che lo scioglimento dell’aporia non implicava l’uscire dalla fede, facendo anzi vedere l’essenzialità della fede per la verità ulteriore alla «struttura originaria». Devo aggiungere, peraltro, che la stessa tesi della non verità della fede cristiana che caratterizza il pensiero maturo di Severino non dev’essere banalizzata, anche perché la comprensione del suo significato concreto implica l’introduzione di una serie di concetti ulteriori (si pensi, ad esempio, al tema delle «tracce» della verità nella non verità) che Severino ha articolato nelle sue ultime opere.

A cinque anni dalla scomparsa, qual è oggi il «peso specifico» della filosofia di Severino, e quali dei suoi insegnamenti-avvertimenti possiamo ritrovare nell’attualità dei nostri tempi confusi, scossi da guerre e difficoltà sempre più pesanti?

Il pensiero filosofico non può mai incidere nell’immediato per ciò che riguarda l’attualità, anche se d’altra parte, quest’ultima si determina sullo sfondo di una serie di precomprensioni concettuali, quasi sempre inavvertite. Direi che, stando a Severino, la partita decisiva in merito alla possibilità che la filosofia abbia una reale incidenza nella società odierna si gioca nell’interrogare la civiltà che è sorta dal pensiero greco e che nel suo compimento scientifico-tecnologico ha plasmato l’intero pianeta, alla luce di una messa in questione dei concetti che stanno alla base di questo intero storico. A incominciare dalla comprensione che l’uomo, non solo occidentale, ha del significato essenziale della vita e della morte.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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