Filippo Minelli, il silenzio prende forma
Sulla copertina dell'ultimo numero di Elephant Magazine, rivista cult di arte contemporanea che si distingue per la spiccata propensione all'analisi delle nuove tendenze e alla ricerca di talenti sulla scena internazionale compare un'immagine densa di poetico senso straniante: una nuvola di fumo rosa sospesa sulla superficie increspata di uno specchio d'acqua. Tutto intorno una natura immobile, su cui pesa un cielo greve di pioggia: un paesaggio naturale sottratto alla sua normale apparenza, e restituito in una nuova dimensione in cui il silenzio che lo percorre e lo rende unico acquista una forma visibile. È un'opera della serie «Silence shapes» dell'artista bresciano Filippo Minelli, trent'anni in questi giorni, che con questa copertina vede definitivamente consacrato il suo successo internazionale, già confermato dall'interesse che in molti Paesi la sua ricerca concettuale, iniziata come writer nella nostra città e proseguita nel segno di una costante evoluzione multidisciplinare, fra pittura, performance, fotografia e nuovi media, riscuote da diversi anni.
Cosa significa per te?
Ovviamente è una grande soddisfazione. Tutto è cominciato con l'incontro casuale a Eindhoven con Nicola Bozzi, un amico giornalista che frequentava l'Accademia di Brera con me e che ora vive ad Amsterdam. Mi ha proposto l'articolo per Elephant, che tra l'altro contiene un'analisi molto completa del mio lavoro, e dopo qualche tempo sono stato contattato dagli editori che avevano deciso di dedicarmi la prima pagina. A dire la verità ultimamente comincio a pensare di essere molto più conosciuto di quanto immaginassi, se poi al fatto di essere conosciuto corrispondesse anche una migliore situazione economica sarebbe perfetto.
Stai lavorando molto all'estero, in Europa e non solo.
Sì, stranamente l'Italia è l'unico posto dove non ricevo proposte, perlomeno proposte che meritino di essere accettate: senza adeguate garanzie preferisco rifiutare. Da noi purtroppo manca totalmente la tutela sulla proprietà intellettuale del lavoro e soprattutto pesa il vuoto istituzionale di interesse per la ricerca e per la divulgazione culturale. Non esistono progetti, pubblicazioni, in grado di promuovere seriamente l'arte contemporanea e, allo stesso tempo, di aggiornare il gusto dei collezionisti. Dall'estero invece ricevo costantemente inviti da Istituzioni, Fondazioni e Musei, che propongono iniziative concrete di ricerca, che sostengono il lavoro degli artisti, magari con budget non elevatissimi, visto che la crisi ha portato tagli ovunque, ma che ci permettono di investire nel nostro lavoro.
Non pensi mai di lasciare Brescia per posti che offrono maggiori opportunità?
Diciamo che la tentazione c'è. Questo è il periodo delle decisioni. Da un punto di vista economico ci sono molti luoghi che sono autentici paradisi fiscali rispetto all'Italia, e questo non è certo un fatto trascurabile per artisti che magari devono vivere con budget limitati. D'altro canto dal punto di vista degli stimoli culturali vivere in provincia ha il vantaggio che si è completamente liberi di muoversi e di scegliere dove andare, senza rischiare di restare intrappolati dai limiti mentali che comunque esistono anche nelle grandi metropoli.
Quali sono i progetti più interessanti in cui sei stato coinvolto ultimamente?
Lo scorso anno sono stato invitato al Festival Internazionale di Fotografia di Singapore e recentemente, dopo una personale alla Ruttkowski68 Gallery di Colonia, sono stato contattato dagli organizzatori della Triennale della Ruhr. Mi hanno commissionato lavori che saranno utilizzati anche per la comunicazione dell'evento. Anche gli Storylines Studios di Oslo, i più importanti studi cinematografici norvegesi, mi hanno richiesto per la loro immagine aziendale. Ho poi ricevuto la proposta di pubblicazione di una monografia dalla Fondazione Onomatopee di Eindhoven e a breve uscirà un articolo dedicato al mio lavoro sul New York Times. L'autore è il filosofo Santiago Zabala di Barcellona, con cui ho collaborato in un progetto transdisciplinare legato alla relazione artisti-spazio pubblico in chiave sociologica.
Tutta la tua ricerca, dal divertimento con i primi «graffiti» ai lavori come pioniere della Street Art italiana, passando per performances ambientali in giro per il pianeta, è sempre stata stimolata dall'interesse per la potenza comunicativa del linguaggio, della parola scritta. Ultimamente la tua esplorazione si è spostata sul versante opposto: il silenzio.
Sì, a un certo punto ho iniziato a ragionare sul silenzio come elemento complementare alla parola nel linguaggio e ho cercato razionalmente uno strumento per occuparmene visivamente, qualcosa che mi permettesse di dargli una forma fisica. I fumogeni, con le loro implicazioni simboliche legate a valenze di tipo politico, esercitano una grande forza sull'immaginario comune e mi sono parsi un mezzo potentissimo dal punto di vista estetico.
Giovanna Galli
Riproduzione riservata © Giornale di Brescia
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