Fabio Volo: «Libri e avventure per trovare il mio posto nel mondo»
La sala gremita e una coda lunghissima di fans per farsi rilasciare l’autografo dal proprio beniamino. Poco più di un’ora di conversazione/spettacolo, condito con battute esilaranti e altrettanto salaci detti della brescianità, tante risate ma anche tanti momenti di emozione per Fabio Volo, ieri di ritorno a Brescia, al teatro Sociale, dove in prima assoluta ha presentato il suo ultimo libro «Balleremo la musica che suonano» (Mondadori), in dialogo con Martina Speich, per il «Dopo Librixia» 2024 (organizzato da Confartigianato imprese Brescia e Lombardia orientale, col proprio circolo AnCos e dal Comune di Brescia).
Autobiografia
Non un romanzo, questa volta, ma una sorta di autobiografia dove lo scrittore, attore, conduttore bresciano si mette a nudo. E lo fa nella sua città, che ancora una volta gli tributa un’accoglienza calorosissima: nelle prime file le persone più care, gli amici di un tempo, una tifoseria che non è mai venuta e mai potrà venire meno. «A Brescia devo tanto – ammette Fabio –: alla mia famiglia prima di tutto, dove si respirava un amore incondizionato e a quella cultura del fare, che mi ha sempre accompagnato».
Tempo di bilanci? Qualche capello grigio in più, la consapevolezza della maturità, e quella straordinaria giocosità che da sempre lo contraddistingue. E una «sorpresa», forse, per molti: «Balleremo la musica che suonano» (omaggio a un adagio del papà ed anche a una tipica espressione della saggezza di casa nostra) è sì la storia di un ragazzo che sentiva di «non trovarsi nel posto giusto». A guidarlo sono stati i libri, quelle letture mai fatte a scuola, «dove non sono andato, mi sono fermato alla terza media».
Un giorno, però, alla panetteria dei genitori dove appena adolescente egli stesso lavora, si presenta il regista Silvano Agosti e gli regala un libro. «Ho deciso di leggerlo per educazione, invece mi è piaciuto molto. Lui me ne ha portati altri, poi io stesso sono andato in libreria, senza sapere bene cosa stavo cercando».
I libri
La prima lettura autonoma è «Il gabbiano Jonathan Livingston» («Scelto - motteggia - perché era piccolo e con tante foto»). Le pagine dell’amato Hermann Hesse, di Gabriel García Márquez («con cui la scrittura passa dal bianco/nero ai colori»), Jack London, Joseph Conrad e quindi i russi, Dostoevskij e gli altri (l’autore fa una lista in appendice al volume, da mettere sulla mensola dei suoi figli) lo spingono ad alzare lo sguardo e dirsi: ci deve essere uno spazio anche per me da qualche parte.
«Io non ho mai avuto un sogno, non ne ho nemmeno oggi - confessa -. Il mio destino era già tracciato: sono andato via solo per la curiosità di vedere il mondo». Vero è che cercare la propria strada talvolta vuol dire ferire chi resta, come quel padre che fino ad allora era stato il suo grande «eroe triste», con quella sua ironia un po’ sotto traccia e l’attitudine ad esprimere in maniera icastica la verità.
Tra Mike e Dante
Il libro racconta, attraverso gustosissimi aneddoti, il continuo «up and down» nella vita di Volo: possibilità incrociate e occasioni mancate, come gli esordi con Cecchetto e Jovanotti, l’incontro con Gianna Tani («Mi propose di vestirmi da topo e uscire dalla torta per il compleanno di Leolino, il figlio di Mike Bongiorno: dissi no») allora persona potentissima in tv. Le esperienze come lavapiatti a Londra, il soggiorno bohémien a New York.
«Forse è vero che la fortuna aiuta gli audaci. Ognuno di noi ha il suo posto nel mondo, dovevo capire quale fosse il mio». Del resto - cita Fabio a memoria il Canto XXVI dell’Inferno dantesco - «né dolcezza di figlio, né la pieta del vecchio padre, né ’l debito amore lo qual dovea Penelopé far lieta, vincer potero dentro a me l’ardore ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto». Tutte quante le cose (citando ancora il Sommo Poeta) «hanno ordine tra loro».
Per riconoscerlo, bisognerebbe lasciar andare un poco la ragione: «L’istinto - conclude - è la vera luce per capire la direzione giusta; la ragione è sopravvalutata, dovremmo smettere di pensare, liberare quell’opera d’arte che è in noi dalla gabbia del pensiero che ci siamo costruiti».
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