Emma Gabusi: «Amare e creare sono identici»
«L’ispirazione arriva come un’onda. È una specie di aura mistica che mi avvolge, un flusso di emozioni che m’invade e alle quali obbedisco. Sento un sussurro che dice: "Andiamo". E la canzone nasce, cresce, prende forma».
La giovane musicista bresciana Emma Gabusi ha da poco pubblicato il suo primo album «Caos», nove tracce nelle quali le ragioni dell’anima e del canto abbattono ogni barriera, costrizione metrica, pregiudizio. Due estati fa ha vinto un Vocal Talent a Desenzano (madrina dell’iniziativa, Luisa Corna); è stata la protagonista dell’opera «La Bulla di Sapone», presentata più volte al Gran Teatro Morato di Brescia; proviene dalla fucina di artisti della Scuola di Musica del Garda di Alberto Cavoli, dove s’impara il mestiere di musicista e sbocciano talenti. All’anagrafe non è ancora maggiorenne, ma personalità, determinazione, fermento d’idee sono già adulti.
Ti senti «cantautrice» o il termine ormai è antiquato? Per darsi arie internazionali, oggi si usa dire «song writer», ma il concetto è lo stesso. Se usassi quel termine mi accuserebbero subito di tirarmela. Il cantautorato è stato un periodo magico di storia della musica italiana, che per certi versi continua ancora, io cerco di inserirmi in quel solco. Scrivo musiche, testi, suono, curo gli arrangiamenti. Ho lanciato l’album sulle varie piattaforme digitali e in maggio uscirà il videoclip di «Caos». Vorrei presentare l’album dal vivo il più possibile, ma non è ancora possibile a causa delle restrizioni dovute al Covid.
Come è nato il disco? È una fotografia veritiera di me stessa. Tutti i pezzi sbocciano da un’esigenza comunicativa: sono schegge di affetto, perché amare e creare, alla radice, sono identici. È un cd autobiografico, molto pulito e diretto. Ho scelto di non cambiare il mio timbro vocale con effetti, di non inserire seconde voci, di utilizzare solo i miei arrangiamenti, ho fatto tutto io. A volte vivo fasi di secca creativa, altri momenti sono zeppi di illuminazioni. Dopo un silenzio durato alcune settimane, in pochi giorni ho scritto quattro nuove canzoni.
Come avviene il processo? Lo spunto mi arriva come un lampo. Trovo una melodia, la elaboro, ci lavoro al pianoforte. Faccio più fatica a trovare la parola giusta, incisiva, vibrante di significato, che vada a modellarsi su quelle note. Tra l’altro, in italiano è molto più difficile scrivere un testo, rispetto all’inglese. Invento melodie orecchiabili, non scontate, che ti si appiccichino dentro; mi piacciono testi interessanti. Cerco di farmi contaminare il più possibile – dal jazz del mio maestro di pianoforte, dal blues dell’insegnante di canto, dal sound dell’amato r&b –, ma l’obiettivo finale è scoprire, potenziare, raccontare la propria identità. Ho scritto canzoni in tempi lontani e diversi, ma ci sento dentro coerenza e individualità. In ogni canzone mi sento come davanti al destino: in una solitudine piena di silenzio, mi levo la maschera e sono finalmente me stessa. Poi esco dalla stanza e lascio la porta aperta: a far entrare l’infinito.
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