Elio e le Storie Tese, geniali e irriverenti sul palco del Morato
Ammesso che ci fossero dubbi in merito, basterebbe prendere atto del sold out con largo anticipo per capire come Elio e le Storie Tese restino necessari alla nostra epoca. Ma a certificarne una volta di più la singolare fuga dall’ovvio e dal cliché, associata a uno spirito magneticamente irriverente, è poi uno show senza un dettaglio fuori posto, «Mi resta un dente solo e cerco di riavvitarlo», andato in scena ieri sera al Gran Teatro Morato di Brescia con la regia di Giorgio Gallione.
Già l’intro - con predicatoria voce fuori campo a sipario vuoto - è dissacrazione nel puro stile degli Elii (Elio, Cesareo, Faso, Jantoman, Vittorio Cosma, Christian Meyer + Mangoni e Paola Folli, per l’occasione abbigliati tutti in «total white»), che prende le distanze dagli interpreti oggi in voga e usa perfino la musica liturgica per celebrare il rito, rendendo solenne la rentrée.
Mentre bellissimi disegni tra il caricaturale e il picassiano scorrono in rapida rotazione sullo sfondo, si dipana un «greatest hits» che mancava terribilmente da qualche anno, ma che ci fa (ri)entrare in atmosfera sin dalle prime note, passando da «Ùnanimi» a «La terra dei cachi», da «Valzer transgenico» a «Parco Sempione», attraversando territori grottescamente citazionisti («Supergiovane», «Pork & Cindy», «Born to Be Abramo») o imprescindibili creazioni della casa quali «Il vitello dai piedi di balsa», «Servi della gleba», «La follia della donna», «Storia di un bellimbusto».
Le sonorità sono il consolidato frullato di rock, liscio, fusion, world music, rap, strampalate filastrocche e ballate metropolitane, mentre sul piano dei contenuti gli Elii rendono come al solito giustizia, con la loro versatilità, al risalente paragone con il leggendario Frank Zappa. «Siamo entrati a pieno titolo nella grande cultura - celia a un certo punto il frontman -, anche perché c’erano molti posti vuoti…». E via con lo sberleffo (irresistibile quello dedicato ai “cugini” francesi), la battuta, il monologo, il nonsense mascherato da filosofia, il virtuosismo strumentale. Come un ritrovo in famiglia, con risate e applausi fino alla fine.
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