Edith Bruck: «Contro l’antisemitismo, sì allo Stato palestinese»

La scrittrice, ex deportata, è stata ospite della Rassegna della Microeditoria: ha parlato del passato e dell’attualità della questione israeliano-palestinese
Fiera della Microeditoria, in diecimila a Chiari
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«L’antisemitismo ritorna perché non è mai stato sradicato». Ha parlato del passato e dell’attualità Edith Bruck, ospite della Rassegna della Microeditoria di Chiari in collegamento da remoto. La scrittrice e poetessa di famiglia ebrea ungherese, naturalizzata italiana, fu deportata a tredici anni ad Auschwitz dove morì gran parte della sua famiglia.

Ieri ha parlato con il giornalista Alex Corlazzoli del libro «I frutti della memoria» (La Nave di Teseo, 160 pp., 15 euro), nel quale ha raccolto lettere e disegni ricevuti dai ragazzi di alcune delle tante scuole dove da tempo si reca a portare la sua testimonianza.

Israele e Netanyahu

Edith Bruck ospite della Rassegna della Microeditoria di Chiari - Foto New Reporter Foglia © www.giornaledibrescia.it
Edith Bruck ospite della Rassegna della Microeditoria di Chiari - Foto New Reporter Foglia © www.giornaledibrescia.it

«Non ho provato odio». Edith Bruck vede oggi ricomparire un pericolo che non è mai realmente scomparso. Afferma che il conflitto riapertosi in Medio Oriente e le scelte del leader israeliano Netanyahu («un politico che fa cose sbagliate») «fanno sì che ogni ebreo venga identificato con lui, anche se noi non c’entriamo. Ci addolora vedere che non si rende conto dello tsunami che si è scatenato».

Lei ne è convinta: «Israele non ha tutte le colpe, ma finché non nascerà uno Stato palestinese l’antisemitismo continuerà a crescere. La soluzione va trovata, perché questa situazione danneggia tutti gli ebrei del mondo».

Il ricordo della Shoah

Le violenze di oggi acuiscono i ricordi atroci di ieri, che Edith Bruck trasmette con ostinazione ai giovani. «È importante ricordare cosa è accaduto: io lo testimonio da 60 anni e andrò avanti fino all’ultimo respiro. Non lo faccio per me, ma per il mondo in cui viviamo. La storia del ’900 a scuola è insegnata poco e male; i ragazzi invece hanno bisogno di sapere, perché sono loro a dover creare un mondo migliore. Mi ascoltano spesso a bocca aperta e sono pienamente ripagata dalla loro attenzione. Oggi mi capita di incontrare insegnanti che dicono di avermi ascoltato a scuola quando erano bambini, e ci sono anche ragazzi che vanno nelle classi a raccontare al mio posto. Non credo che quella memoria finirà nell’oblio: ho creato testimoni pronti ad andare avanti dopo di me, spero che qualcosa rimanga perché parlare non è inutile».

Nelle scuole si stupisce quando «mi dicono che i ragazzi sanno tutto perché hanno visto “La vita è bella” di Benigni. È un bel film, ma non c’entra con quello che è accaduto. Meglio far vedere documentari, perché è impossibile fare un film autentico sulla Shoah. Non si può raccontare fino in fondo quell’esperienza: anch’io tante volte mi censuro, perché mi dispiace buttare addosso a loro quello che ho vissuto».

Domande profonde

Le sue memorie bastano comunque a fare scaturire domande profonde: «Una ragazza mi ha chiesto come sono riuscita a fidarmi ancora delle persone. Può sembrare incredibile, ma sono uscita da quell’esperienza senza l’ombra di odio, ed è stata la mia salvezza. Anche quando avevo di fronte esseri che compivano gli atti più mostruosi, provavo più pietà che odio per come erano stati disumanizzati. Di fronte ai tedeschi che ci facevano spogliare non mi sono mai vergognata, come se non li considerassi esseri umani; mi è accaduto per la prima volta davanti agli americani, quando ci hanno fatto togliere i vestiti per bruciarli».

L’italiano, scelta di libertà

Per la scrittrice, la lingua italiana è stata una fonte di libertà: «Non avrei mai potuto scrivere liberamente in ungherese, la lingua che mi ricorda gli insulti subìti».

Qualche anno fa, ha scritto una «Lettera a Dio» che ha colpito papa Francesco. «Avevo una mamma molto credente, ho sempre sperato che nelle camere a gas non avesse perso la fede. Io ho sempre dubitato, da quando vidi la scritta ’Gott mit uns’ sulle cinture dei nostri carcerieri. L’ho detto al Papa e lui mi ha risposto che Dio è una ricerca continua. Forse c’è un principio di Dio in ognuno, in quel poco di bene che esiste in ciascuno di noi e che andrebbe alimentato, invece di alimentare l’odio».

Perfino ad Auschwitz comparvero alcune flebili luci: «Un cuoco che mi chiese come mi chiamavo, domanda impossibile nel lager; un altro che mi regalò un guanto bucato; uno che doveva uccidermi e non lo fece; una donna che mi diede due centimetri di marmellata. Non c’è mai il buio totale, ma sempre una minima speranza». //

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