Eco-fashion: la moda dice stop ai veleni
Una moda sostenibile, che non produca danni all’ambiente e sfrutti la manodopera, è possibile. Basta volerlo e impegnarsi in una strada di certo tortuosa, ma alla lunga virtuosa. È quello che crede Greenpeace, che da anni si batte per la salvaguardia del pianeta e che recentemente ha bacchettato alcuni grandi nomi del made in Italy, rei di girarsi dall’altra parte quando si tratta di cambiare metodi di produzione.
L’eco-fashion è diventato un business per alcuni e uno specchietto per le allodole per altri. Negli ultimi tempi i consumatori hanno mostrato una sempre maggiore attenzione verso le tematiche green e l’impatto che le grandi aziende hanno sulla natura, spinti anche dall’esempio di alcune star che si sono fatte portavoce della causa, come Emma Watson o Livia Firth, moglie dell’attore Colin Firth e fondatrice di Eco-Age, associazione che si occupa di fornire consulenza a brand, influencer e addetti ai lavori, per un futuro ecocompatibile.
Proprio lei porterà in Italia a settembre i Green Carpet Fashion Awards Italia, serata in cui, accanto a marchi come Prada, Giorgio Armani, Fendi, Gucci e Valentino, sfileranno e saranno premiati nuovi nomi della moda che rispetteranno i dieci criteri di Eco-Age ai quali un brand deve allinearsi per ritenersi sostenibile. Un evento che si unisce all’impegno della Camera Nazionale della Moda, che nel 2016 ha lanciato le «Linee Guida sui requisiti eco-tossicologici per gli articoli di abbigliamento, pelletteria, calzature ed accessori», suggerendo dei limiti ai marchi che hanno deciso di firmare il documento. Un passo in avanti, certo, ma è ancora poco rispetto a quello che si può fare, almeno secondo gli attivisti di Greenpeace perché «i limiti suggeriti sono valori troppo alti rispetto all’innovazione della tecnologia. Insomma sono "vintage" rispetto a quello che si può fare davvero oggi, quindi non abbastanza. In più ricordiamo sempre che i test vanno fatti non sul prodotto ma sull'intero processo», spiega Chiara Campione senior corporate strategy di Greenpeace a Business Insider.
L’associazione dal 2011 ha lanciato la campagna Detox, per combattere l’inquinamento delle risorse idriche ad opera dell’industria tessile, chiedendo ai brand di firmare il Detox Committment, un impegno pubblico e trasparente nei confronti dei consumatori che prevede un action plan fino al 2020 per eliminare le sostanze chimiche pericolose.
Da qui deriva la lista delle aziende virtuose e di quelle che invece si girano dall’altra parte. Si scopre così che i marchi della moda low cost sono più attivi e impegnati rispetto alle grandi griffe.
Stando alle ultime valutazioni (luglio 2016) i promossi a pieni voti sono i marchi del gruppo Inditex (Zara, Bershka, Pull and Bear, Oysho), H&M e Benetton, cioè quelle rispettano le scadenze e si applicano in modo serio e credibile. Subito dietro, con riserva, G-Star, Valentino, Adidas, Burberry, Levis, Primark, Puma, che hanno compiuto molti passi nella direzione giusta, ma dovrebbero dare un'accelerata.
Bocciati, invece, Armani, Bestseller, Diesel, Dolce e Gabbana, Gap, Hermès, i marchi del gruppo LVMH e Versace, che non hanno aderito e che continuano a far finta di non vedere la scia inquinante che lasciano alle proprie spalle.
Un peccato, se si considera che proprio i big della moda dovrebbero essere in prima linea e dare il buon esempio, specie per innescare un effetto traino che farebbe bene a tutti.
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