L’uovo, una potenza föra dàla cavàgna

Potentissima fragilità dell’uovo. Ha un’eleganza inarrivabile (uno che se ne intendeva come il designer Bruno Munari sosteneva che «ha una forma perfetta benché sia fatto col culo»). Stimola la riflessione filosofica (per Aristotele un uovo è una gallina «in potenza») e apre la porta all’infinito (quando ci si chiede se «è nato prima l’uovo o la gallina»). Eppure va manipolato con delicatezza e rispetto, altrimenti «si fa una frittata».
L’uovo (l’öf, talvolta si registra anche la grafia öv ma personalmente preferisco la prima) era una presenza irrinunciabile nelle cascine, sulle tavole e nel linguaggio dei nostri nonni. Nei pollai, era spesso lasciato un èndes (un uovo non fecondato e diventato vecchio, viene dal latino «index») a indicare - appunto - alla gallina il nido al quale tornare a deporre. Per la sua funzione, infatti, in alcune zone quest’uovo era detto anche gnàl, nido. L’uovo va deposto lì, normalmente. Da qui il modo di dire «fàla föra dàla cavàgna» (la cavàgna e il caagnöl sono cesti di vimini, sono il «cavaneum» dei latini) per indicare una cosa fatta fuori posto. E di solito è un guaio.
Per capire se un uovo fosse o meno fecondato (e decidere quindi se mangiarlo subito o se lasciarlo alla cova) le nonne erano abili a «sperà i-öf», cioè a metterli in controluce di uno spiraglio di sole («’na spéra de sul») e intuirne l’interno. Un’antesignana ecografia. Dal pollaio poi l’uovo arrivava in cucina. L’uso più semplice è al burro... Ma di questo parleremo la settimana prossima. Piuttosto volevo chiedervi: voi dite rosolàda o rösömàda? E come la preparavano le vostre nonne? Vorrei ritrovare quel sapore.
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