Il cappone, il cacao e l'anima delle tàne

Fino a quel momento era stato un dé àgher, grigio e lento, ricolmo solo de mìa-òia. Poi l’apertura della mail mi ha regalato un sorriso inaspettato che ha riscattato la giornata colorandola di luce. Era la mail di un lettore di Dialèktika - Bruno - che dopo le puntate delle settimane scorse dedicate alle cantilene usate dai bambini per sorteggiare i ruoli nei giochi collettivi ha pescato, e condiviso, una sua memoria personale. «Mi permetto di inviarvi la seguente tàna», ci scrive.
Eccola, la trascrivo (con minimi aggiustamenti grafici): «Sóta el pónt de caicì / gh’è trè mèrde de spartì / spartirém tra tào e mào / té la mèrda mé el cacào / el cacào l’è mìga bù / té la mèrda e mé al capù». Impossibile frenare il buonumore. A parte la disposizione tutta nostrana - di cui andar fieri - di preferire il sostanzioso cappone (protagonista suo malgrado delle cucine delle nostre nonne) all’illuminista cacao (una delle esotiche bevande ufficiali dei caffè letterari settecenteschi), centro tematico assoluto della tàna è indubbiamente lo sterco. Nella cultura contadina di cui il dialetto bresciano è generosamente concimato, la cacca è riferimento costante. Richiamato da mille rime.
Nella filastrocca infantile di «Gioanì maiagàcc» recitata per i nipoti, mia nonna (e fatico a pensare ad una persona meno volgare di lei) chiudeva regolarmente ridendo: «... töcc i gàcc i g’ha la cùa / mèrda ’n bóca tùa». La cultura dialettale era malata di quella patologia che gli psichiatri chiamano coprolalia? Non credo proprio. Semplicemente sapeva che «a parlà de cüi e de mèrda l’ànima la se consèrva». Dalla scatologia all'escatologia.
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