Candido, o del piànzer su un mondo di guerre
«Sté pòera pipìna la pianzìa isé tànt che gh’è vignìt enfinamài el sangiót». La mia biancocrinita dirimpettaia dall’uscio di casa racconta del pianto della nipotina di due anni. Sembra di vederla, la piccola, scossa non tanto per la sbucciatura al ginocchio rimediata cadendo sul marciapiede quanto dalla disillusione, dalla dolorosa scoperta che quello nel quale siamo chiamati a vivere non è il migliore dei mondi possibili.
Nel dialetto bresciano il piànzer disperato dei bambini non è un frignà o uno scaragnà, è piuttosto un cridà (che proprio come l’inglese «to cry» arriva dal latino «quiritare», cioè invocare aiuto). Ma quel che a me resta nell’orecchio è quel sangiót che in alcune aree della provincia si sente anche dire, con pronuncia antica, sanglót. È il singhiozzo. E proprio la variante bresciana più arcaica denuncia la parentela col termine greco «glòtta», che nell’Atene del quinto secolo avanti Cristo indicava la lingua, sia come parte anatomica sia come idioma. È da lì che vengono termini italiani come «epiglottide», «glottologia», «ingiottire». O il «gloglottio» dei tacchini.
Ed è sempre lì che - con raffinata ironia - pesca Voltaire quando decide di chiamare Pangloss il tronfio filosofo tedesco che (in graffiante analogia con quanto sosteneva Leibniz) vuole insegnare al suo Candido che noi viviamo nel «migliore dei mondi possibili». Candido invece guarda la realtà coi suoi occhi. E vede terremoti, carestie, guerre, ingiustizie. Li vediamo anche noi, anche oggi, anche 250 anni dopo Voltaire. E se talvolta - in cuor nostro - un poco na ’é de piànzer, sappiamo bene che non è per un ginocchio sbucciato.
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