David LaChapelle a Brescia: «Non volevo che le persone ritratte si sentissero sfruttate»
Il weekend che si è appena concluso ha avuto un chiaro protagonista. Il fotografo sessantenne David LaChapelle ha danzato in piazza Loggia, ha visitato l’esposizione in Pinacoteca Tosio Martinengo che ospita temporaneamente la sua serie del 2003 «Jesus is my homeboy» e la nuova opera «Gated community» e, infine, ha tenuto una partecipatissima lectio magistralis nell’Auditorium Santa Giulia.
A quanto pare Brescia gli è piaciuta molto. Si dice che della Pinacoteca abbia apprezzato parecchio l’allestimento della sua mostra e che abbia commentato anche i raffinati contrasti della sede espositiva («A beautiful place»). Insomma: la città ha colpito lui e lui ha colpito Brescia. Se, dunque, l’accostamento LaChapelle-Ceruti sembrava inizialmente azzardato, l’esperimento si è dimostrato riuscito. Lo dice anche la folla: l’Auditorium era pieno, segno che Brescia apprezza gli appuntamenti internazionali.
L'incontro
La presidente Francesca Bazoli e il direttore Stefano Karadjov hanno fatto gli onori di casa Fondazione Brescia Musei, insieme con la sindaca Laura Castelletti, dopodiché il microfono è passato a Denis Curti, che ha curato anche l’esposizione «Nomad in a beautiful land», l’incontro tra David LaChapelle e Giacomo Ceruti sopra accennato, che ha portato una serie di opere del fotografo a colmare i vuoti lasciati dall’assenza di diversi dipinti del Pitocchetto, grande e rispettoso interprete della povertà, esattamente come LaChapelle, che da sempre punta l’obiettivo anche su marginalità e problemi sociali (e ambientali).
«Dire che David sia una fonte inesauribile di creatività non è un luogo comune» ha detto Curti, inquadrando la «staged photography» di LaChapelle, la fotografia ricostruita. «Il suo studio - ha svelato - è gigantesco; non per megalomania, ma per teatralità. Le scenografie sono minuziose». Ma LaChapelle, nonostante la minuzia, chiede soprattutto di completare le opere che produce, ha sottolineato Curti, chiarendo come nelle sue foto ci sia sempre una sospensione del giudizio per provocare riflessione.
Partendo quindi dall’ostentazione e del materialismo che l’hanno portato a parlare della situazione dei senzatetto attraverso l’opera «Gated community» - che ritrae una serie di tende, ricoperte con tessuti griffati, ispirate da quelle reali che stazionano davanti al grande museo d’arte di Los Angeles - LaChapelle ha raccontato il suo processo creativo, allargando peraltro il discorso a tutti i temi che affronta nelle sue foto, dal momento che le due cose sono sempre legate da un filo strettissimo. Per esempio: per non mancare di rispetto alle persone che davvero vivono in quelle tende, le ha ricreate in studio, sovrapponendole digitalmente a quelle presenti in strada. «Non volevo che questi individui si sentissero a disagio o sfruttati».
Per il nuovo lavoro «Station of the cross», invece, ha scelto il rapper italiano Tedua dopo una ricerca lunghissima di un personaggio con il giusto physique du rôle e dopo una videocall in cui ha visto dal vivo il suo viso mediterraneo. Il lavoro è stato presentato recentemente alla Biennale di Firenze ed è una Via Crucis surrealista, profana ed estremamente à-la-LaChapelle. «Tedua è entrato a fondo nel personaggio. Aveva la giusta emozione, le giuste lacrime, la giusta espressione. Ho trovato l’unico rapper senza tatuaggi, italiano e con un pubblico giovane, che ha saputo avvicinare all’arte come i personaggi famosi oggi sanno fare».
Il discorso si è per forza ampliato alla spiritualità del fotografo, che nel 2005 visitò la Cappella Sistina lasciandosi affascinare e prestando sempre più attenzione all’iconografia e alla fede cristiane. «Il sublime mi ha "atterrato". Noi oggi siamo abituati a vedere immagini: figuriamoci invece in passato quanto fosse forte lo spettacolo michelangiolesco. Le persone cadevano a terra svenute». Oggi diamo per scontato il potere dell’immagine, ma David LaChapelle sa benissimo come riaccendere nel pubblico la scintilla dello stupore.
«Come vorrebbe essere ricordato tra cinquant’anni?» ha infine chiesto qualcuno. «Mi basterebbe sapere che ci siamo ancora: vuol dire che ce l’abbiamo fatta».
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