Damiano Palano: «Italia post populista e tripolare: può tornare l’epoca dei tecnici»
Dopo le elezioni politiche del 25 settembre 2022, nel laboratorio politico italiano è iniziato un «nuovo, inedito esperimento»: il governo presieduto da Giorgia Meloni, sostenuto da una coalizione guidata da un partito, Fratelli d’Italia, «nel cui codice identitario rimane ancora qualche traccia della storia del neofascismo italiano».
Quali conseguenze può avere il nuovo assetto sulla nostra democrazia e sulla collocazione dell’Italia in Europa? E questa situazione è destinata a durare o è solo un episodio della «transizione permanente» italiana? Ne discutono gli autori coinvolti nel libro «Il futuro della democrazia italiana. Politica e società al tempo del governo Meloni» (EDUCatt, 288 pagine, 20 euro), a cura di Damiano Palano, ordinario di Filosofia politica e direttore del dipartimento di Scienze politiche dell’Università Cattolica, nonché editorialista del nostro giornale.
Il volume è stato promosso da Polidemos, il Centro per lo studio della democrazia e dei mutamenti politici della Cattolica, di cui Palano è direttore.
Professor Palano, perché definisce l’Italia di oggi «post-populista»?
Le retoriche populiste, che hanno trionfato negli anni Dieci del XXI secolo, non sono scomparse. Il decennio populista, tuttavia, ha lasciato sul terreno una sfiducia radicale nella politica, che impedisce l’affermazione di nuovi soggetti outsider quale è stato il Movimento 5 Stelle. Il quadro si è stabilizzato ed è tornato a organizzarsi attorno alla linea di frattura fra destra e sinistra.
Siamo però un «tripolarismo imperfetto» e instabile?
È quello uscito dalle elezioni del 2022: tre poli che si sono contrapposti, uno dei quali più pesante degli altri in termini elettorali. Il risultato finale era scontato. Questo è ancora il quadro attuale; in parte è fonte di instabilità perché la coalizione di centro-destra, non essendoci un polo credibilmente in grado di scalzarla, soffre al suo interno di costanti lacerazioni per ridefinire gli equilibri di potere.
È finito il tempo dei governi tecnici?
Lo stop alle tecnocrazie viene dichiarato periodicamente, ma per la carenza di leadership adeguate, per la sfiducia nei confronti dei partiti, il ricorso ai tecnici in alcuni momenti risulta inevitabile. Negli ultimi due anni il ritorno alla politica è stato predominante, ma non è escluso che, neppure tra molto tempo, qualcuno possa invocare quantomeno l’ingresso di qualche tecnico nel governo.
Autonomia differenziata, riforma del premierato: scelte che possono indebolire la nostra democrazia?
Le difficoltà sperimentate dalle nostre democrazie dipendono da molti fattori. Ma sicuramente le riforme di cui oggi si discute indeboliscono alcuni anticorpi della democrazia italiana. Questo non comporta che si arrivi a un’involuzione autoritaria: c’è però il rischio, incidendo sull’equilibrio dei poteri, di eliminare qualche presidio che ci ha preservato finora da un eccesso di personalizzazione del potere.
La forte mobilità del quadro elettorale è una peculiarità italiana?
No, è una tendenza abbastanza diffusa. Un fenomeno propriamente italiano è, invece, il fatto che la mobilità si mantiene all’interno di alcuni bacini elettorali definiti. Gli elettori votano un partito diverso, ma non votano mai per la coalizione o l’area politica che ritengono opposta: piuttosto scelgono il non voto.
Il «laboratorio italiano» è anomalo o anticipatore rispetto alle dinamiche politiche internazionali?
L’Italia degli anni ’90 sembrava una grande anomalia; se oggi guardiamo alla forte polarizzazione che stanno sperimentando gli Usa, ma anche a quello che è accaduto in Francia, penso che tutto sommato l’Italia ha indicato prima del tempo alcune tendenze che stanno vivendo anche altre democrazie occidentali. //
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