Cultura

Dall'Iran al mondo intero, la mostra sulle donne per i diritti di tutti

Il focus di «Finché non saremo libere», che resterà aperta fino al 28 gennaio al Santa Giulia, è dedicato alle rivolte contro il regime
  • Le opere lungo il percorso della mostra «Finché non saremo libere»
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C’è chi cuce assieme frammenti di stoffa recuperati, chi assembla piastrelle di edifici crollati in cui un tempo pulsava la vita. Chi intercetta con la macchina fotografica lo sguardo di chi per destino o per scelta è ai margini della società, chi imprime sulla pelle la geografia di un mondo in dissoluzione o inamovibile. Chi si assume il peso della memoria di coloro che la violenza ha fatto scomparire, o la tragedia di una società che detta leggi tanto folli quanto non impugnabili. E chi divide la speranza in un futuro migliore come si fa con la torta di un banchetto, e chiede di partecipare ad un respiro liberatorio collettivo da diffondere nei luoghi feriti della terra.

Sorellanza. Condivisione, partecipazione, empatia. È il segno tutto femminile della mostra «Finché non saremo libere» - al Museo di Santa Giulia fino al 28 gennaio - ulteriore tappa del progetto su arte e diritti umani avviato con le monografiche di Zehra Dogan, Badiucao e Victoria Lomasko. Dopo lo spazio dedicato ai tre giovani artisti dissidenti, lo sguardo ora si allarga, grazie all’apporto della milanese Associazione Genesi che - con la curatrice Ilaria Bernardi - ha condiviso con Brescia Musei ideazione e produzione della mostra.

Uno sguardo al femminile come chiave di lettura dell’impegno per diritti che non possono essere individuali: o sono collettivi, o non sono. Lo testimonia lo slogan «Donna, Vita, Libertà» assunto dalla protesta in Iran in seguito alla morte di Mahsa Amini il 16 settembre 2022, quando la rivolta femminile si è allargata all’intero Paese ed è risuonata all’estero.

Le protagoniste

E all’Iran è dedicato il focus della mostra, che parte con una selezione di opere della collezione Genesi di artiste impegnate sul fronte dei diritti: dalla fotografa franco-marocchina Leila Alaoui, precocemente scomparsa in Burkina Faso durante un attacco terroristico mentre era impegnata in un progetto di Amnesty International, alla pakistana Hangama Amiri che tocca il tema dei profughi afghani; dall’ucraina Zhanna Kadyrova alla nigeriana Otobong Nkanga; dall’indiana Shilpa Gupta che denuncia il peso della censura, alla cinese Hung Liu; da Zehra Dogan già nota ai bresciani, all’attivista lesbica sudafricana Zanele Muholi.

L’Iran

Al Paese sottoposto al regime degli ayatollah è dedicato il cuore della mostra. La celebre fotografia di Shirin Neshat «Stories of Martyrdom» (1994) con le mani femminili istoriate da scrittura araba, su cui è posato un fucile, racconta della doppia identità delle donne iraniane, a cui si chiede sottomissione e partecipazione alla battaglia. Una solitudine condivisa dalla donna che, nello spazio ambiguo tra deferenza e accerchiamento, affronta tre militari in divisa in «Honor» (2020) di Soudeh Davoud.

Nella seconda parte del percorso, due generazioni di artiste iraniane (della giovane Zoya Shokoohi diciamo qui a fianco) connettono attraverso i decenni l’impegno per i diritti. Sonia Balassanian (n. 1942), studi negli Usa dove ormai vive da esule, recupera la memoria della rivoluzione khomeinista e della crisi degli ostaggi americani a Teheran del 1980, in collages di foto d’epoca, brandelli di giornale e scrittura («Hostages: A Diary», 1980); si identifica con la donna velata il cui ritratto stracciato e scomposto si sovrappone a lettere di supplica e impronte digitali da schedario di polizia («Untitled / Self Portrait», 1982), smaterializza il corpo femminile nei calchi di «Brooding» (1988) ed evoca la condizione asservita del popolo iraniano nelle immagini dell’agnello sacrificale di «The Flock» (2008).

Attraverso la videoinstallazione, Farideh Lashai (1944-2013) utilizza la figura del Bianconiglio di Alice nel Paese delle Meraviglie per descrivere l’universo di assurdità e prevaricazione senza risposte che ha segnato la storia dell’Iran dal colpo di stato del 1953 guidato dalla Cia, fino ad oggi. Si chiude il cerchio tornando all’opera che apre la mostra: «Becoming» (2015) di Morteza Ahmadvand, unica presenza maschile, che immagina il dissolvimento, nella sfera della Terra, dei tre simboli delle religioni monoteiste. Un auspicio finora disatteso.

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