Dal coro di Desenzano ai teatri d’Europa, brilla il soprano Chiara Milini
«Non riesco a immaginare la vita senza canto, né senza danza. Come ha scritto Dante: l’inferno è fissità e rumore, il paradiso è armonia e movimento. Continua a stupirmi la natura infinita dell’uomo, che non si accontenta, chiede, riprova». Conserva uno sguardo meravigliato sulla realtà il giovane soprano di Desenzano Chiara Milini. Nei mesi scorsi ha conquistato il concorso «Cavaion d’oro», nel 2018 aveva vinto il premio «Maria Zamboni» e nel 2017 trionfato alla competizione vocale «Maria Callas» di Sirmione. Con il pianista bresciano Riccardo Barba sta incidendo un cd di brani natalizi; in autunno canterà a Desenzano, Verona, Carpenedolo, in gennaio l’attendono récital a Atene e altre date prestigiose.
«Ho iniziato nel coro di voci bianche del Duomo di Desenzano, poi a 15 anni l’avvio del mio percorso in questa nobile e difficilissima arte - racconta Milini -. Il soprano Paoletta Marrocu ha posto in me le solide basi del canto. Altro passaggio-chiave sono stati gli insegnamenti di Riccardo Muti, con il quale ho studiato a Ravenna nel 2016: preziosa alternanza di consigli e di battute, severità e simpatia. Mi sto perfezionando con il soprano Silvia Dalla Benetta: con le sue cure miglioro me stessa e trovo sicurezza, vado oltre la tecnica, l’interpretazione, il carisma; studiare con lei è privilegio e gioia».
Quali recenti esperienze le piace nominare?
Ognuna è speciale. Da ogni luogo, produzione, concerto, piccoli o grandi che siano, porto sempre a casa qualcosa. Cito con piacere «La serva padrona», al teatro Nazionale di Bosnia: pubblico internazionale, diretta radiofonica, timore enorme eppure immensa soddisfazione. A Jaroslavl, sul fiume Volga, ho cantato diretta da Yuri Bashmet: tutti mi scambiavano per autoctona e mi parlavano in russo (ovviamente io non capivo una parola), perfino il maestro non credeva fossi italiana. A Rovigo ho cantato spesso con il teatro pieno di bambini e ragazzi, che applaudivano in ogni momento, senza inibizioni, con un entusiasmo pazzesco, seguendo solo l’emozione: un pubblico straordinario.
Qual è il punto di forza dell’«Italia canora»?
Siamo avvantaggiati dalla pronuncia (le opere più importanti sono in lingua italiana); ma non è un automatismo, perché una cattiva tecnica può rovinare anche un cantante madrelingua. Poi possediamo espressività, eclettismo, chiarezza, fluidità, senso del legato, immedesimazione. Ma il canto è un mistero. La voce è uno strumento unico, e «suonare» la propria voce è una delle sfide più ardue. Non c’è al mondo una voce uguale all’altra, e abbiamo tutta la vita per imparare a capirci, ascoltarci, scoprire chi siamo. Siamo intellettuali e artisti, perfino atleti: servono fiato e allenamento, mente e corpo. Il canto è una medicina potentissima e una disciplina ardua. È un’esigenza spirituale, prima che estetica.
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