Da Grande Fratello a Grande Gemello: metamorfosi del reality
Vent’anni di «Grande Fratello»: dal 14 settembre 2000 quando su Canale 5 il format olandese creato tre anni prima da John De Mol e Paul Römer scombinò il tran-tran televisivo con l’inedito e seminale concetto di «reality show», a oggi, 14 settembre 2020, stessa rete ed ennesima edizione (stavolta con protagonisti Vip).
Due decenni d’un fare tv che dall’indubbia innovazione dell’esordio ha stratificato via via cliché di forme (la lite&l’alleanza; l’isolamento dal mondo esterno, ma il mantenimento delle sue dinamiche) e di personaggi (ilbullo&ilbuono; ilfesso&ilfintopensatore; lasnob&lapopolana...) che, in mutazione anche prossemica nel rapporto personaggi-ambiente, hanno trasformato la Casa da prigione-vetrina a teatro, palcoscenico d’una comédie humaine d’accatto. Peccato.
Sì, perché quando esordisce in Italia nel 2000 il «GF» è una rivoluzione; segna il primato della gente comune che ottiene visibilità che il video ha fin lì riservato solo ai talentuosi: c’è chi è pizzaiolo, chi pubblicitaria, chi bagnina come Cristina Plevani di Iseo che vincerà.
Nella Casa si sostanzia l’uno vale uno anti-qualitativo che tornerà, politicizzato, 15 anni dopo: non serve arte né talento, basta esistere; anche senza ombra di abilità ci si può ingraziare l’empatia o la simpatia d’un pubblico che non cerchi competenze. Porte aperte a tanti Nessuno (o a ex-Qualcuno) che la telecamera sublima: alcuni, dopo l’esperienza, si costruiscono una carriera, ma i più svaniscono. A intrigare c’è anche il rito sacro&pagàno del Confessionale, tecno-gogna di rancori o purificazione; e il televoto fa sentire lo spettatore una... tricoteuse sferruzzante davanti a una moderna ghigliottina mediatica.
Un processo ora identificativo ora dissociativo accosta il pubblico ai partecipanti perché il video perde filtro e diventa osmotico: di qua e di là dallo schermo c’è gente comune, cioè tutti, chi più chi meno. Gli ascolti fanno boom, l’eco-gossipara pure, ma la democratica magìa, o meglio l’ipnotica malìa, durerà poco.
Man mano che medium (tv) e mediati (concorrenti&spettatori) acquisiscono dimestichezza coi meccanismi del «genere», il «GF» non è più Finestra di realtà, ma strumento distorsivo di essa. E chi ci va comincia a recitare un ruolo, più maschera che persona, facendo slittare la carica veristica verso la commedia dell’arte.
Il programma, affinandosi ma non raffinandosi, si disumanizza e non a caso ricorre a versioni-Vip: se Cristina Plevani era un mix di Alice nel Paese delle (tele)meraviglie e Ofelia di provincia, le sgallettate pseudo-Vip d’oggi sono scafatissime figurine recitanti. Da anni i gieffini sono più al servizio d’un copione che del loro esibizionismo.
Lo show è più show e la reality sempre più artatamente messinscena di situazioni - litigiose, fintofilosofeggianti, parasessuali... - non ruspantemente sincere, bensì espressione d’un Barnum emozionale per chi ancora creda candidamente alla tv come realtà; e nel caso dei Vip, basta scorrere l’elenco per prevederne «ruoli» e comportamenti.
Oggi al Padre di tutti i reality show, in origine mirabile potenziale laboratorio d’osservazione antropologica, ora neppure la «volontaria sospensione dell’incredulità», lo spontaneo adattamento acritico del pubblico teorizzato nel 1817 da Coleridge, riesce più a dare credibilità. «Grande Fratello» s’è banalizzato in Grande Gemello uguale a sé: solo - per dirla come per la rosa di Gertrude Steiner - il remake d’un remake d’un remake...
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