Cinema

Il cast di «Parthenope» è passato dai cinema di Brescia

Enrico Danesi
Prima alla Oz e poi al Moretto: Celeste Dalla Porta (nipote di Ugo Mulas), Daniele Rienzo e Dario Aita si sono aperti con il pubblico bresciano
  • Il cast di Partenope al Cinema Moretto
    Il cast di Partenope al Cinema Moretto - Foto New Reporter Favretto © www.giornaledibrescia.it
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Celeste Dalla Porta, Daniele Rienzo e Dario Aita hanno incontrato il pubblico bresciano, prima alla Multisala Oz e poi al Cinema Moretto, introducendo gli spettatori alla visione di «Parthenope», il nuovo film di Paolo Sorrentino, da giovedì nelle sale italiane.

Si tratta, rispettivamente, dell’attrice che indossa i panni della protagonista del film, appunto Parthenope (che solo nelle poche sequenze ambientate ai nostri giorni lascia il posto a Stefania Sandrelli), e degli attori che interpretano il fratello di questa, Raimondo, e l’amico Sandrino, entrambi da sempre innamorati di lei. I tre sono parte di un cast ricchissimo e hanno dunque condiviso il set, tra gli altri, con Silvio Orlando (che rende come di consueto magnificamente il suo personaggio, in questa occasione un professore di antropologia saggio, malinconico e umanissimo), Gary Oldman (che si cala con eleganza stropicciata nel ruolo dello scrittore americano John Cheever, il «Čechov dei sobborghi»), Luisa Ranieri e Peppe Lanzetta (cardinale con un improbabile colore di capelli e un proprio personalissimo codice mistico).

Dalla Porta, nipote di Ugo Mulas

Celeste Dalla Porta, ventiseienne milanese con ascendenze bresciane (il nonno materno, il grande fotografo Ugo Mulas, era nato e cresciuto a Pozzolengo, mentre il padre Paolo, contrabbassista e compositore mantovano-veneziano, ha insegnato al Conservatorio di Brescia) è all’esordio nel cinema: la sua è un’interpretazione folgorante, memorabile, un mix singolare di candore, indolenza e insolenza.

Per «meglio ambientarmi – ci confida – ho trascorso un mese a Napoli, cercando di assorbire quanto più possibile dell’atmosfera della città. Anche se in quel periodo e durante la lavorazione, in cui mi sono sentita accolta, non sono forse riuscita a guardarla in maniera attenta, nella maniera giusta. Cosa che invece mi è capitata alla fine delle riprese ed anche ora, quando ci penso». Per quanto riguarda il ruolo ammette che «all’inizio ero contenta ma anche spaventata, sentivo una grande responsabilità e non riuscivo a credere che Paolo avesse scelto proprio me. Ad ogni modo ha fatto di tutto per farmi sentire a mio agio, sul set». 

Daniele Rienzo, napoletano

Del rapporto con il regista durante la lavorazione del film parla anche Daniele Rienzo, 34enne napoletano da tempo stabilitosi a Roma, che ha già preso parte a parecchi progetti, anche se il ruolo di Raimondo rappresenta senz’altro un upgrade per la sua carriera: «Sorrentino non mi ha dato particolari indicazioni, mi ha semplicemente detto di interpretare il ruolo come lo sentivo. Con il vantaggio di non dover fare un’immersione nella lingua napoletana, come invece hanno dovuto fare (con risultati egregi) Celeste e Dario. Il mio è un personaggio di cui mi sono innamorato: come anche quelli di Parthenope e Sandrino sembra vivere un eterno presente, un’eterna giovinezza… Ma a un certo punto si deve crescere, la vita reclama di fare un passo avanti». L’attore partenopeo non si sbilancia invece rispetto alla relazione controversa, piena di slanci e respingimenti, che Sorrentino manifesta nei confronti della loro città: «In materia non mi pronuncio, perché di Napoli si parla sempre molto, in cerca di un equilibrio tra il bene e il male, e si rischia alla fine di sconfinare comunque nel cliché». 

Il Sandrino di Dario Aita

Infine si pronuncia Dario Aita, palermitano di 37 anni, che ha in curriculum una manciata di film italiani, parecchio teatro e molta tv, e si dimostra un Sandrino credibilissimo anche nella tarda adolescenza. L’attore siciliano è convinto che in Sandrino ci sia certamente qualcosa di Sorrentino, anche se non lo percepisce necessariamente come un alter ego dell’autore: «È vero che c’è il diminutivo, come per Fabietto di “È stata la mano di Dio”, e questa è un’indicazione di vicinanza; ma credo che in “Parthenope” il regista abbia distribuito qualcosa di sé anche in altri personaggi, se non proprio in tutti». Per quanto concerne le direttive in ordine al ruolo, anche Aita conferma la grande libertà concessagli: «C’era già molto nella sceneggiatura, ho preso essenzialmente da lì, anche perché Paolo non dice “fai in questo modo o in quest’altro”. Di certo, è stata una bellissima esperienza».

Storia di formazione

Nel film i tre giovani vivono in maniera simbiotica la loro adolescenza e la prima parte della loro gioventù, fino a un episodio che cambia le cose e offre un orizzonte diverso al loro futuro. Ma come talvolta capita nelle opere di Sorrentino (soprattutto da «La grande bellezza» in poi) non c’è per forza una strada da seguire, una riflessione da fare, un’indagine (esistenziale) da portare a termine: se crediamo all’impostazione dichiarata dal regista medesimo (che ha argomentato: «I miei film sono spesso senza trama, non voglio raccontare per forza qualcosa»), contano più le emozioni e le sensazioni che non il plot e la coerenza drammaturgica.

Ad ogni modo, il racconto si dipana a partire dal 1950, quando – con un parto nelle acque del golfo di Napoli – nasce Parthenope, che prende il nome della sirena che sta alla base del mito fondativo della città. Cresce come donna libera e inafferrabile (intelligente, insolente, disinvolta, dolcissima), facendo innamorare ogni uomo che incontra (compresi quelli di famiglia), vivendo ogni situazione come un eterno presente, acquisendo tuttavia nel tempo la consapevolezza che ogni attimo diventa ricordo pacificato o rimpianto. Vivrà il dolore e parteciperà di quello altrui, lambirà il fango senza sporcarsi, a un certo punto costringerà Napoli nel cuore per guardarla da «una lunga distanza» (quella che, secondo Mina, «fa pensare a qualcuno con maggiore importanza»).

Un film estremamente sorrentiniano

In «Parthenope» c’è Sorrentino allo stato puro, dunque barocco, smisurato, felliniano a oltranza (nella scrittura, prima ancora che nella messa in scena), nostalgico e struggente, elegantemente contemplativo o smaccatamente voyeuristico, infaticabile contaminatore di alto e basso nel mettere a fuoco la sua città d’origine e i suoi concittadini attraverso un coacervo di sentimenti in equilibrio tra amore e fastidio, con uno sguardo onnivoro e mai esausto. Capace di raccontare come pochi – con una cifra stilistica che si conferma, ma a ogni film successivo si arricchisce di quanto espresso nei precedenti – la grande bellezza anche quando l’ammanta di osceno, di esaltare la giovinezza senza nasconderne l’ineluttabile futuro né preservarla dalle conseguenze dell’amore. 

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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