Bignardi: «Racconto l'umanità dolente dietro le sbarre»
Sensibile e attenta alle tante emergenze che affiorano nella società da contesti civili e politici, la giornalista, scrittrice e conduttrice televisiva Daria Bignardi ha fatto del suo libro «Ogni prigione è un'isola» (Mondadori, 168 pagine, 18,50 euro) un'opera con più anime.
È un reportage di ottimo livello che evidenzia i problemi reali delle carceri italiane e dei carcerati; è un labirinto di storie amare attinte dalle voci dei detenuti, di patimenti, restrizioni e appelli che stringono il cuore; è un documento umanitario che si traduce in un'inchiesta allarmante a dir poco; è un'introspezione in cui riverberano le tante passioni, furori e scorciatoie della vita che accomuna ladri, rapinatori, poveri cristi, immigrati e tossicodipendenti (che costituiscono i due terzi dei detenuti), mafiosi e camorristi, ma anche idealisti e rivoluzionari, terroristi rossi e neri esponenti della lotta armata degli anni di piombo e delinquenti comuni; e per tutti con sincero interesse l'autrice cerca di fotografare in quei luoghi di repressione più che di rieducazione che sono le carceri, lo spirito della resilienza inasprito dalla mancanza di libertà e lo stigma della rassegnazione. È un coro di voci tragiche, dissenzienti, un quadro dai colori foschi, un magma ribollente che rende la questione carceraria sempre più esplosiva, oggi come ieri al centro di accesi dibattiti.
«Da ragazzina – scrive – mi appassionavo al Conte di Montecristo o alle Mie prigioni e a vent'anni ho cominciato a scrivere lunghe lettere a un condannato a morte statunitense»; in carcere conobbe il futuro suocero Adriano Sofri e per il carcere operò al meglio delle sue possibilità anche se – precisa - ora «non provo più nessuna fascinazione per le galere».
Per scrivere questo libro di memorie e riflessioni che presenterà anche alla 25ª edizione del festival letterario Pordenonelegge in calendario dal 18 al 22 settembre, si è «rinchiusa» a sua volta in una piccola isola, Linosa, una delle tre Pelagie: «Piccola, verde, nera, persa nel mare blu tra Africa e Sicilia», per immergersi nel passato e rievocare il volontariato compiuto dentro le carceri italiane, soprattutto a San Vittore di Milano. L'abbiamo intervistata.
Visitando le carceri intendeva contribuire a migliorare la vita dei detenuti?
Grazie, ma non ho la presunzione di operare per una vita migliore dei detenuti come dice lei, mi limito a raccontare quello che vedo, perché, come scrivo nel libro e come ho detto al dott. C., in prigione c'è la vita com'è, fatta di dolore, ingiustizia, povertà, amore, malattia, morte, amicizia, rimpianto di una felicità e desiderio di libertà.
Il carcere è lo specchio della società?
Che il carcere sia lo specchio della società lo dicono agenti, direttori, educatori, magistrati, chiunque in carcere ci lavori e ci viva. E purtroppo sì, è anche una scuola di crimine, nella maggior parte dei casi. In tanti raccontano di esserci entrati ragazzi, magari per un pezzo di hashish o un reato minore, ed essere usciti coi contatti per intraprendere una vera carriera criminale.
In carcere cosa incrementa i suicidi?
Quest'anno il numero dei suicidi è impressionante e parla di un disagio insopportabile, di persone malate, tossicodipendenti, con problemi psichiatrici, che in carcere non ci dovrebbero stare. Il mondo fuori non sta molto bene, ci sono sempre più persone povere e malate, e dentro è uguale, solo che si sta ancora peggio.
Nelle prigioni sovraffollate la detenzione può essere davvero sentita come una «vendetta sociale»?
Di fatto lo è, in queste condizioni. Anche se c'è un sacco di gente, tra le persone che lavorano nell'amministrazione penitenziaria, che cerca davvero di aiutare chi soffre. Ma è il sistema carcere che è guasto, non le singole «mele marce» come sentiamo dire ogni tanto.
È la distanza che il carcere crea con la realtà a trasformare in isole luoghi di espiazione e pena?
In realtà che ogni carcere sia un'isola me lo ha detto un ispettore, in un carcere del nord. Voleva dire che ogni istituto è diverso, un mondo a sé, e che tutto dipende dalla direzione e dal rapporto della direzione col comandante degli agenti. Ma anche dal territorio. Le carceri dove i detenuti sono più lontani dalle famiglie, o abbandonati perché stranieri, son le più tristi.
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