Arte

Fortunato Martinengo: chi è l’uomo melancolico ritratto da Moretto

Giovanna Galli
Membro di una delle famiglie più influenti del patriziato bresciano, la sua grande passione furono le «lettere»: Moretto lo dipinse in una posa melanconica
Il ritratto di Fortunato Martinengo porta la firma di Moretto - Foto Alberto Mancini
Il ritratto di Fortunato Martinengo porta la firma di Moretto - Foto Alberto Mancini
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Il dipinto scelto come emblema di questa ricognizione «sentimentale» intorno al Rinascimento bresciano è un quadro bellissimo, che però si incontra soltanto a conclusione del percorso espositivo, per una scelta precisa dei curatori che in quest’opera, capolavoro di Moretto, hanno individuato una eloquente e suggestiva sintesi dei contenuti della mostra.

Chi era Fortunato Martinengo

Chi era infatti l’enigmatico gentiluomo dallo sguardo malinconico e dalla posa pensosa che grazie al realismo intriso di luce fisica e affettiva di Moretto continua a vivere sulla tela? Fortunato Martinengo (1512-1552) la cui biografia è servita da spunto per la costruzione del percorso espositivo, era figlio del conte Cesare e di Ippolita Gambara. Membro di una delle famiglie più influenti del patriziato bresciano, diversamente dai suoi fratelli non intraprese una carriera militare, né si dedicò a quella ecclesiastica e neppure si interessò dei beni di famiglia, poiché la sua grande passione furono le «lettere», ovvero una sfera ampissima di interessi, dalla letteratura alla musica, dalla poesia alla filosofia, che includeva anche una forte spiritualità, in un senso intensamente religioso, che lo vide protagonista del dibattito in atto tra riforma e Controriforma.

Melanconia e simboli

In lui convergono interessi, passioni, aspirazioni ma anche le inquietudini e i dubbi della Brescia cinquecentesca che questa mostra intende raccontare. Nel dipinto di Moretto si fa ritrarre in una posa melanconica che svela profonde radici iconografiche e filosofiche, di ascendenza düreriana

Tuttavia si tratta di una posa e uno sguardo che non tradiscono tristezza, piuttosto un senso di distacco, un affettato disinteresse per le cose materiali, che pure lo circondano (gli abiti sontuosi, il contesto elegante, le suppellettili preziose).

Alla non semplice interpretazione del dipinto, così ricco di oggetti e dettagli di alto contenuto simbolico, si aggiunge l’enigma della targhetta posta sotto la falda del copricapo piumato, che reca la scritta in greco «Ahimè, troppo desidero».

Chissà a cosa fa riferimento quel desiderio che alimenta la luce di quegli occhi verdi? Forse, suggerisce la curatrice Roberta D’Adda, a quella virtù tanto agognata che dovrebbe essere il motore di ogni nostra azione.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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