Arte

E se il «Gentiluomo con flauto» fosse Fortunato Martinengo?

Marco Bizzarini
Le allusioni, i simboli e i documenti suggeriscono che il nobile sapesse suonare diversi strumenti a fiato e a corda: l’analisi di Marco Bizzarini
Il Gentiluomo con flauto di Savoldo - Foto New Reporter Favretto © www.giornaledibrescia.it
Il Gentiluomo con flauto di Savoldo - Foto New Reporter Favretto © www.giornaledibrescia.it
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Nel celebre ritratto del conte Fortunato Martinengo, una delle tele giustamente più ammirate del Moretto e simbolo della mostra sul Rinascimento bresciano, non compare nessun riferimento alla musica. Sarebbe dunque vano cercarvi strumenti musicali o fogli di carta con notazione, tutti elementi che invece spiccano nel non meno famoso «Gentiluomo con flauto» di Savoldo. Eppure il conte Fortunato, al centro di una fitta rete di letterati e intellettuali, era anche un grande cultore di musica, tanto che il teorico Pietro Aaron gli dedicò un trattato nel 1545 e il misterioso compositore oltremontano Nolet, forse d’origine olandese, intonò a cinque voci un suo testo poetico.

Le allusioni e i simboli

Secondo testimonianze coeve, il nobile bresciano sapeva suonare diversi strumenti, a corda e a fiato.

Con queste premesse, forse si possono cogliere velate allusioni alla musica anche nel ritratto del Moretto. Anzitutto, come anni fa osservò lo storico Pino Marchetti, la postura di Fortunato Martinengo, seduto in posizione leggermente obliqua, con il gomito appoggiato su un cuscino e la mano sulla guancia, è sorprendentemente simile all’incisione con cui il teorico della musica Aaron presentava se stesso nel trattato «Toscanello» del 1523. Un altro indizio indiretto è contenuto nell’enigmatica iscrizione in greco del cartiglio sotto il copricapo di Fortunato.

Il potere della musica

In italiano, il motto significa: «Ohimè, io desidero troppo». E quale poteva essere, nel Cinquecento, un efficace rimedio per colui che eccedeva in desideri? Vincenzo Galilei, padre di Galileo, riallacciandosi a una fiorente tradizione umanistica, attribuiva alla musica degli antichi greci – utopistico modello anche per alcuni teorici e compositori del XVI secolo – il potere «di rendere la sanità agli infermi» e anche «di temperare i disordinati appetiti», che sarebbe appunto il nostro caso.

Il laboratorio musicale degli anni ’40 del Cinquecento annoverava un sofisticato repertorio strumentale per liuto e il nascente genere del madrigale polifonico, affascinante specchio sonoro del coevo petrarchismo poetico.

Il collegamento

Si è di recente ipotizzato che il più illustre compositore madrigalista dell’epoca, Cipriano de Rore, il Tiziano della musica, abbia soggiornato per qualche tempo a Brescia, probabilmente nella cerchia dello stesso Martinengo. E la dedica di un mottetto di Cipriano a Cristoforo Madruzzo, principe-vescovo di Trento, in occasione della sua nomina cardinalizia, potrebbe essere messa in relazione al mecenatismo di Nicolò d’Arco, suocero di Fortunato.

Si è accennato prima al «Flautista» di Savoldo che alla parete del suo studio appende la parte per tenore di «O morte, olà!» del compositore Francesco Patavino. E se il personaggio effigiato fosse davvero, anche se sarebbe arduo da dimostrare, il nostro Fortunato Martinengo da giovane?

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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