Contaminazione e cultura della diversità: la Biennale di Pedrosa va in direzione Sud
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C’è una yurta anatolica all’ingresso del Padiglione Centrale ai Giardini. E un astronauta migrante ad accogliere i visitatori all’Arsenale. Così vede l’uomo contemporaneo la sessantesima Biennale d’Arte che si è inaugurata sabato 20 aprile, a Venezia, per rimanere aperta fino al 24 novembre (info: labiennale.org). Curata da Adriano Pedrosa (Rio de Janeiro, 1965) la rassegna traghetterà definitivamente la Mostra internazionale d’arte contemporanea nel XXI secolo.
Radici, percorsi, sviluppi
Parlando di migrazione, certo («Stranieri ovunque» è il titolo, mutuato dall’opera del collettivo Claire Fontaine alle Gaggiandre dell’Arsenale) ma anche di «estranei» (alla società codificata) in senso lato, dagli sradicati al mondo queer; e poi di natura, diritti, di quel che resta del colonialismo. Lo fa portando alla ribalta - Pedrosa è il primo direttore che viene da lì - l’arte del Sud del mondo, indagandone in modo organico radici, percorsi e sviluppi in un continuo confronto con l’arte europea e occidentale in genere, che dall’esotismo e dalle culture tribali succhiò nei secoli più di una suggestione.
La mostra
Nel percorso coerente che si snoda dal Padiglione Centrale dei Giardini (il consiglio è partire da lì) all’Arsenale, degli oltre 330 artisti invitati, la maggioranza viene dal Sud del mondo, è migrante o appartiene ad una minoranza, pochi hanno già esposto alla Biennale. Una scelta per cambiare punto di vista anche sulle categorie dell’arte.
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Da un lato, Pedrosa recupera l’arte modernista dei Paesi extra-occidentali, con sezioni storiche dedicate all’Astrazione (tra calligrafie geometriche e optical a colori) e al Ritratto (tra i tanti, Frida Kahlo). L’altro percorso, costruito per assonanze, discendenze, confronti tra differenti geografie e generazioni, è dedicato ai temi della diversità.
La migrazione, anche con gli italiani: d’adozione come Victor Fotso Nyie (Camerun, 1990) che traduce in ceramiche l’iconografia tradizionale della statua lignea africana; o di nascita come Fred Kuwornu (Bologna, 1971) che nel video «We were here» denuncia l’oblio della presenza africana in Europa nei secoli passati; e i «migranti illustri» (con nomi noti come Sassu, Severini, Gnoli e interessanti scoperte) nella sezione allestita con i supporti disegnati da Lina Bo Bardi (1914-92) architetta italiana attiva in Brasile. Poi la «queerness» comunque intesa: l’Art Brut della svizzera Aloise (1886-1964) accanto agli arazzi coloratissimi di Liz Collins (Usa, 1968), i fantasmi di Magde Gill (1882-1961) affiancati agli inchiostri evanescenti di Giulia Andreani (Venezia, 1985), i nudi omoerotici di De Pisis e gli interni di intima sensualità di Louis Fratino (Usa, 1993). Spazio agli artisti nativi, alla pittura sciamanica, all’arte tessile, alla scultura in legno e terracotta, nel segno dei linguaggi non verbali tramandati attraverso le generazioni.
I giovani
Mezzi espressivi che gli artisti attivi negli ultimi trent’anni piegano a temi contemporanei, e contaminano con i new media. Così Sabelo Mlangeni (Repubblica Sudafricana, 1980) immortala nelle sue foto la comunità trans in Nigeria e in Sudafrica, e Barbara Sanchez-Kane (Messico, 1987) costruisce una torre di corpi abbigliati con divise militari e guepière per smantellare l’idea di mascolinità. Xiyadie (Cina, 1963) decora tele con pattern floreali e scene erotiche, e La Chola Poblete (Argentina, 1989) accosta nei suoi acquerelli pop la Vergine Maria e la dea Pachamama per parlare di contaminazione, fluidità e queerness.
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Denuncia e rivendicazione di diritti, sempre con uno sguardo allargato alla comunità, e la consapevolezza di appartenere ad una rete sociale e di energie fisiche (sacrali?) di cui l’arte è espressione.
In Biennale, il messaggio del Sud del mondo è chiaro.
Riproduzione riservata © Giornale di Brescia
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