Arte

Chi è Joel Meyerowitz, dalla foto di strada al racconto di Ground Zero

Il fotografo originario del Bronx è uno dei protagonisti dell’ottava edizione del Brescia Photo Festival: la sua esposizione al Museo di Santa Giulia
  • Le fotografie di Joel Meyerowitz
    Le fotografie di Joel Meyerowitz - © Joel Meyerowitz
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Joel Meyerowitz: un nome piuttosto noto tra chi mastica un po’ di fotografia e tra chi ama la street photography. Il New York Times ha definito la sua carriera addirittura «una mini storia della fotografia», tanto significativi sono il suo stile e la sua tecnica. Anche Brescia ora potrà conoscere a fondo e da vicino la sua arte: il 25 marzo è il giorno in cui verrà inaugurata al pubblico la sua prima antologica in Italia, che verrà ospitata proprio dal Museo di Santa Giulia in occasione dell’ottava edizione del Brescia Photo Festival, dedicata al tema degli «Archivi».

La sua storia

Joel Meyerowitz nasce nel Bronx nel 1938. Un quartiere che è giusto citare: è infatti il suo primo osservatorio sulla natura umana e il contesto sociale in cui vive è centrale per la fotografia di strada che, a un certo punto, diviene il suo primario interesse. Ed è proprio questo – la street photography – il genere che lo rende celebre.

Dopo aver studiato pittura, storia dell’arte e illustrazione medica alla Ohio State University, negli anni ’60 lavora come art director nel settore pubblicitario. La svolta avviene nel 1962: è quello l’anno in cui assiste Robert Frank mentre scatta delle fotografie per un opuscolo da lui progettato. Vedere il fotografo muoversi mentre scatta lo colpisce profondamente. Decide così di lasciare immediatamente il lavoro, prendere in prestito una macchina fotografica e immergersi nella fotografia di strada.

La rivoluzione del colore

Se la fotografia di strada non è una novità, lo è quella a colori. La pellicola in bianco e nero era infatti in quegli anni il mezzo prediletto di fotografi e fotografe dediti ai soggetti sociali. Ma sin dagli inizi Meyerowitz utilizza proprio il colore, inconsapevole del fatto che, all’epoca, la fotografia artistica fosse considerata esclusivamente in bianco e nero.

L’incontro con Tony Ray-Jones e Garry Winogrand segna un periodo di intensa esplorazione della vita urbana, in particolare lungo la Fifth Avenue di New York. Influenzato dalla scuola di Henri Cartier-Bresson e Robert Frank, Meyerowitz porta però il genere a un nuovo livello, diventando un pioniere del colore. Ed è anche grazie al suo lavoro che la fotografia a colori si afferma come linguaggio artistico riconosciuto.

Los Angeles airport, California, 1976 - © Joel Meyerowitz
Los Angeles airport, California, 1976 - © Joel Meyerowitz

Nel 1978 pubblica «Cape light», un libro che diventerà un classico della fotografia a colori, vendendo oltre 200mila copie. È il primo di una serie: nella sua lunga carriera, sono oltre cinquanta le pubblicazioni da lui curate, tra cui «St. Louis and the arch» (1980), «A summer’s day» (1985), «Redheads» (1991, dedicata alle persone con i capelli rossi) e «Bay/Sky» (1993). Negli anni ’80, dunque, c’è anche molta natura tra i suoi soggetti.

In tutti i libri, così come in tutti i servizi da lui scattati, ciò che emerge è la capacità di catturare momenti apparentemente ordinari per trasformarli in immagini evocative e poetiche. Lo fa anche avvicinandosi il più possibile ai suoi soggetti, ottenendo un’intimità che è peculiare nel suo lavoro.

Ground Zero

Joel Meyerowitz, le rovine di Gorund Zero - © Joel Meyerowitz
Joel Meyerowitz, le rovine di Gorund Zero - © Joel Meyerowitz

Capitolo a sé meritano le fotografie scattate da Meyerowitz sulle macerie delle Torri Gemelle. Dopo l’11 settembre 2001, infatti, è lui l’unico fotografo ad avere accesso illimitato a Ground Zero.

Il progetto «Aftermath: the World Trade Center archive» diventa così una testimonianza visiva della tragedia e del processo di ricostruzione. Con questo lavoro rappresentò anche gli Stati Uniti alla Biennale di Architettura nel 2002 a Venezia.

L’evoluzione e il lavoro sul lockdown

La carriera di Meyerowitz è caratterizzata anche da una continua e costante evoluzione, senza tradire la sua natura più profonda. Dagli scatti dinamici della New York degli anni ’60 e ’70 si passa a immagini più contemplative realizzate con la macchina a banco ottico. E più in generale l’artista usa sempre il mezzo fotografico per esplorare nuove prospettive, dalla ritrattistica alla fotografia di paesaggio, fino agli studi sugli oggetti negli atelier di Cézanne e Morandi. 

Le sue opere nel tempo sono entrate nelle collezioni dei più prestigiosi musei del mondo, tra cui il MoMA di New York, il Metropolitan Museum of Art, il Whitney Museum e la Tate Modern di Londra.

A quasi 90 anni, Meyerowitz continua a esplorare la fotografia con uno sguardo sempre attento e innovativo. Il suo lavoro non si limita a uno stile o a un genere, ma è nei fatti un viaggio continuo alla ricerca di nuove modalità espressive. Tra le ultime ricerche c’è un progetto a cui ha lavorato durante i lockdown della pandemia da Covid-19: un focus della mostra bresciana è dedicato ai 365 autoscatti, mai proposti in Italia, che Meyerowitz si scattò giorno dopo giorno nel corso del 2020.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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