A Palazzo Martinengo la luce di Uberti nel mondo di Faita
«Di segni e icone», di tracce minime e grande potenza evocatrice, possiamo dire della mostra allestita nelle sale di Palazzo Martinengo che affianca il lavoro di Bonomo Faita (Brescia, 1955) e Massimo Uberti (Brescia 1966-2024).
Due voci limpidissime nel panorama artistico contemporaneo: entrambi bresciani di nascita, entrambi protagonisti della scena nazionale e internazionale con un fitto e prestigioso curriculum espositivo, i loro diversi percorsi hanno tracciato scie indelebili che la rassegna porta in primo piano, evidenziandone anche insospettabili prossimità, assonanze, delicati intrecci.
Massimo Uberti, scomparso prematuramente a 57 anni lo scorso aprile, riceve in questa occasione un omaggio postumo che, grazie all’incontro del suo lavoro con quello di Bonomo Faita, perde ogni sapore malinconico, ricordandoci che l’opera d’arte è un atto di resistenza alla caducità, in cui i confini del tempo e dello spazio si sfaldano e la voce di chi non c’è più continua, cristallina, a pronunciare il suo messaggio.
Light Art
Nel caso di Uberti un messaggio di luce, che si dipana in quelle dimensioni di infinito e di eternità che ricorrono tra i fondamenti della sua ricerca. La sua fama è infatti legata alle grandi installazioni luminose, cui l’artista si è dedicato da quando, dopo gli esordi come pittore e la sperimentazione con la fotografia, aveva trovato nel neon lo strumento ideale per la sua rigorosa indagine estetica. Tra i più grandi interpreti della Light Art, ha continuato a esplorare le dimensioni dello spazio e del tempo, del presente e del passato, della casa e della città, ricostruendo con la luce una dimensione poetica in cui ricollocare la realtà ed esprimerne l’essenza.
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Il percorso
La mostra ricostruisce il suo intero percorso, accostando alle opere luminose dipinti, arazzi e ceramiche. Nella sala introduttiva, l’unica dove opere di Faita e Uberti si trovano affiancate, troviamo gli «Archetipi», che fissano pittoricamente i capisaldi del suo lavoro (il varco, la casa, la scala, l’ellisse, la pianta urbana), ricorrenti poi in diverse opere emblematiche esposte nella saletta multimediale e nelle sale del primo piano. Qui brillano alcune parole luminose che scandiscono il suo vocabolario concettuale – come «Lost and Found» e «Spazio Amato» –, si trovano le inedite installazioni «Le ore», in mattoni ceramici, e «Pensieri circolari», e balugina l’oro (altra forma di luce cara all’artista) della grande installazione «After the Gold rush» ispirata al tema-chiave della Città ideale.
Visione onirica
Di segno diverso, ma ugualmente evocativo a livello concettuale è il delicatissimo mondo espressivo di Bonomo Faita che trova posto nelle sale del pian terreno e del mezzanino. Anche Faita fa ricorso ad un repertorio ricorrente di simboli, archetipi, temi che rimandano ad un sistema di riferimento in cui il mondo è reinterpretato in una visione dove la fantasia si nutre di conoscenza, una cultura profondissima, mai ostentata, ma che è il vero strumento di decodifica del suo racconto, dove la fiaba si mescola alle citazioni letterarie e visive e l’infanzia all’età adulta, alternando sorrisi e malinconia. La luce, l’oro, i libri, gli spazi vissuti ed abitati, l’eredità classica, le nuvole e la notte che si accende di stelle sono un filo rosso che idealmente intreccia le ricerche dei due artisti.

Universi poetici
Faita è un instancabile costruttore di piccoli universi poetici che nascono da una grande laboriosità, una serialità operativa dove si stratificano prevalentemente il disegno e la fotografia, ma che mescola, usa e riusa tecniche, materiali e oggetti in un intelligente lavoro di assemblaggio, ritocco, manipolazione da cui prendono vita immagini apparentemente minime, ma che, come improvvise epifanie, straripano di senso ed emozione.
Lo spazio espositivo è completamente ridefinito da installazioni in cui opere del passato (a partire dagli anni Ottanta e Novanta) e del presente si connettono le une alle altre, innescando anche nella relazione reciproca quel meraviglioso senso di spiazzamento, di matrice ludica, ironica, fiabesca, a volte inquietante e spietatamente sarcastica, che caratterizza tutti i lavori, anche grazie ai titoli che li accompagnano come parte integrante dell’azione creativa («Lightbox», «Disegno che dorme», «Bucato»).
Riproduzione riservata © Giornale di Brescia
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