25 Aprile: la voce di Rosi Romelli, partigiana bresciana

La libertà: il bene più prezioso. L’ottantesimo anniversario della Liberazione non può che risuonare come una grande festa, ma anche come un monito a non dimenticare quali e quanti sacrifici sono occorsi per conquistare quella libertà di cui oggi godiamo. E chi meglio di Rosi Romelli, lei che è stata la partigiana più giovane ed ancora conserva intatto il ricordo di quei fatti incancellabili, può saperlo e raccontarlo?
Bresciana, nata a Rino di Sonico, classe 1929, appena quindicenne visse con i suoi familiari la lotta di Liberazione sulle montagne della Val Camonica. Il padre Luigi “Bigio” era vicecomandante della 54ª Brigata Garibaldi in Val Malga; Rosi e la madre Pina erano nella stessa brigata. Tutti e tre saranno arrestati il 20 dicembre 1944.

Signora Rosi, quanta emozione c’è in lei per questa importantissima celebrazione?
Festeggiare l’ottantesimo di libertà per me significa rinnovare tanti fatti belli e meno belli; ricordare la fatica che abbiamo fatto nel muoverci durante quei mesi molto pesanti. Allo stesso tempo sento una grande riconoscenza verso coloro che ci hanno aiutato nel periodo in cui siamo stati in montagna, portandoci cibo, armi e notizie di quello che stava succedendo in paese, in modo che potessimo spostarci in sicurezza. Perciò ringrazio tutti, i compaesani e anche quelli dei paesi vicini, che quando hanno saputo che papà aveva radunato tanti giovani, tante persone per combattere, si sono uniti senza fare troppe domande: hanno capito che stavamo combattendo per non sottostare ai comandi di chi governava allora e per ritrovare una forma civile di vita, di libertà e di giustizia.
Lei era molto giovane, ma qual è il ricordo che più di altri ha voluto conservare nel suo cuore?
Forse uno dei primi, quando ci hanno arrestato in piazza Garibaldi, quindi ci hanno portato in questura e ci hanno divisi. Io in una stanza, mamma in un’altra e dopo non molto tempo l’ho vista tornare mettendosi il dito indice della mano destra davanti alla bocca come a dire “Non parlare, non ho parlato io, non farlo neanche tu, non dire niente di quello che sai”. E io ho obbedito. Mamma perdeva sangue dal naso e dalla bocca, a forza di schiaffi le avevano spostato la mandibola, questo è uno dei ricordi più feroci. È stato un periodo terribile con tante torture sia su mia mamma, sia sul mio babbo. Ecco, io sono stata solo presa a pugni, a calci; sono stata trattata meglio, diciamo così.
Com’è stato il distacco da suo padre?
Ricordo che una mattina sono venuti a dirmi che non potevo stare lì perché ero troppo giovane. E siccome anche papà era imprigionato in questura, ho chiesto di salutarlo prima di andare via. Mi hanno portato alla sua cella e ho sentito, mentre mi avvicinavo, un rumore di catene; poi l’ho visto con le mani e i piedi incatenati, che non poteva nemmeno muoversi, e il volto tumefatto per i pugni e le torture subìte. Quando ho cercato di avvicinarmi, il questurino mi teneva per le spalle per non lasciarmi entrare. Ho cominciato a piangere, perché vederlo in quello stato non si poteva, ma lui mi ha detto: “Non piangere, ricordati che se io sono qui è perché tu, voi, non soltanto tu, un giorno possiate essere liberi”. Ho cercato di intuire quello che voleva dire, ho rimuginato su quelle parole, e ho capito: sapeva che uno dei nostri, Alberto Verginella, era stato fucilato a Lumezzane e che lui stesso non sarebbe uscito vivo da quella prigione.
Cosa vorrebbe dire, Rosi, alle nuove generazioni?
Vorrei raccomandare loro di studiare, soprattutto la storia. Studiare, studiare, per comprendere quanto ha valore e quanto è costata la libertà, che non è una cosa scontata e che è difficilissimo custodire, perché ci sono ancora dei tentativi di sopprimerla. Se siete liberi, ragazzi, è perché qualcuno ha sofferto, qualcuno è morto per donarci questa libertà, unita alla giustizia. E rispettatevi vicendevolmente, siate rispettosi gli uni degli altri, maschi verso femmine; sappiate essere ragazzi coscienti, ragazzi che sanno cosa vuole dire essere liberi.
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