Cultura

Zerocalcare: «Sì, anche coi fumetti si può fare informazione»

Sabato 12 marzo sarà a Brescia per presentare «Strappare la vita lungo i bordi»: «Ripeterei tutto, con una consapevolezza diversa»
All’anagrafe Michele Rech, Zerocalcare, in questo momento il fumettista italiano di punta - Foto © www.giornaledibrescia.it
All’anagrafe Michele Rech, Zerocalcare, in questo momento il fumettista italiano di punta - Foto © www.giornaledibrescia.it
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Zerocalcare non è solo «annamose a pija er gelato», anche se telespettatrici e telespettatori ormai lo conoscono per questo tormentone che arriva da «Strappare lungo i bordi», la serie animata - disponibile su Netflix - scritta, appunto, dal fumettista italiano di punta. Sarà presentata a Brescia sabato prossimo, 12 marzo, insieme al nuovo libro «Niente di nuovo sul fronte di Rebibbia» (Bao).

Doppio l’appuntamento al Magazzino 47, in via Industriale 10, alle 16 e alle 20.30, in collaborazione con Radio Onda d’Urto: ma anche così i posti sono andati esauriti in pochi minuti. Abbiamo intervistato Michele Rech, in arte (appunto) Zerocalcare.

Un po’ come i romanzi d’appendice che aiutavano ad avvicinare i lettori e le lettrici ai giornali, il fumetto può essere il modo giusto per modernizzare i media tradizionali?

Essendo un linguaggio e non un genere credo possa parlare di tutto e fare anche informazione. Ora molti lo stanno capendo: quando nasce un quotidiano, la prima cosa che si cerca è chi faccia i fumetti.

Sabato parlerà prima di tutto di «Strappare lungo i bordi»: se ancora c’è qualcuno che non l’ha vista, come la descriverebbe?

Quando la consiglio dico che in un’ora e mezza è finita! Per il resto è una storia di un viaggio di tre persone, un viaggio emotivamente complicato per salutare qualcuno che non c’è più, con tante scene quotidiane che formano un mosaico.

Zerocalcare è legato a Brescia tramite Giulia, una ragazza che si è tolta la vita nel 2012: a lei è dedicata la giornata di sabato. Il tema trova molto spazio nella serie. Parlare di suicidio è ancora un tabù?

È qualcosa di cui si fa fatica a parlare e chi ci passa (in prima persona: chi ci prova e i cari che restano) ha difficoltà a trovare uno spazio di elaborazione e riconoscimento. Me lo dicono i feedback. Sono rimasto sconvolto dal numero di persone che mi hanno scritto, figli o fratelli di qualcuno che ha scelto di non vivere più. Non avevo la percezione della diffusione. Nella serie ho provato a fare un passo indietro, descrivendo ciò che c’era prima e le reazioni di chi rimane. Servono però strumenti che io non ho, per entrare davvero nel merito. Parlarne è un primo passo... Sì: se penso alle persone che ho conosciuto e che sono morte, sono più quelle che hanno scelto il suicidio. Tutto sommato è qualcosa che va affrontato. Non possiamo continuare a fingere che non accada.

La serie l’ha fatta conoscere a tutti. A qualche mese dall’uscita e dalla lavatrice emotiva come si sente? Rifarebbe tutto?

Sì, ma con una consapevolezza diversa: saprei che per i primi due mesi devo imparare a stare zitto, a essere paziente, a non aprire i social. Che è inutile leggere tutti i messaggi perché è impossibile. Non farei più le cinque di mattina per recuperarli. Quindi ripeterei tutto, ma in modo più equilibrato.

Il nuovo libro «Niente di nuovo sul fronte di Rebibbia»: possiamo considerarlo un’antologia a fumetti della pandemia? E qual è il capitolo più rappresentativo?

Di fatto lo è, perché raccoglie cose uscite negli ultimi due anni, ma non era pensata per questo. Il capitolo più rappresentativo probabilmente è la parte sulla genesi della serie, quella più intima. Tutte le altre narrazioni - in cui comunque credevo - sono state fatte su spinta esterna, perché c’era urgenza di parlarne (le rivolte in carcere, il presidio sanitario di quartiere...).

In questi giorni è uscito anche un suo racconto sulla vicenda di Ugo Russo, ucciso da un carabiniere durante una rapina, su «L’essenziale». Aveva messo le mani avanti, «so che qualcuno non gradirà»: ha ricevuto critiche?

Le peggiori da dieci anni a questa parte. Mi hanno coperto di insulti: «amico della camorra», «vorrei vedere te»... Non mi è chiarissimo chi non abbia gradito, se i miei lettori storici (che però sono abituati alle mie maniere), le persone arrivate dalla serie che avevano in mente solo «annamose a pija er gelato» o la gente che ha acquistato il giornale sentendo il tam-tam «carabiniere sotto processo». Ma l’avevo messo in conto e non mi cruccio.

Su quali altri temi interni le piacerebbe concentrare la matita nei prossimi mesi?

Da tempo sto lavorando sulla questione della guerra dei curdi e nel libro c’è una preview. Vorrei continuare su quel tema, anche se le pressioni dell’attualità sono molte.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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