Cultura

Torna in libreria Marco Archetti con «La luce naturale», dura resa dei conti tra fratelli

Scrittore e insegnante alla Scuola Holden, il bresciano ci sorprende con il frutto maturo di un percorso narrativo già ricco di tappe importanti
Lo scrittore e drammaturgo bresciano Marco Archetti - Foto tratta da Facebook
Lo scrittore e drammaturgo bresciano Marco Archetti - Foto tratta da Facebook
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Marco Archetti torna in libreria (dal 14 marzo) con «La luce naturale» (Mondadori, 168 pp., 18,50 euro). Lo scrittore e drammaturgo bresciano, classe 1976, insegnante alla Scuola Holden di Torino, consulente artistico del Centro Teatrale Bresciano, ci sorprende con il frutto maturo di un percorso narrativo già ricco di tappe importanti.

Agosto. Un modesto hotel pieno di turisti sulla riviera veneziana. Lì la morte assedia un’anziana signora e lì la figlia della signora convoca i suoi due fratelli. Intorno alla madre, la cui morte annunciata come imminente tarda però ad arrivare, esplodono i nodi irrisolti dei tre fratelli. Le aspettative per l’eredità, gli imbrogli, le bugie e i non detti di una vita. Al cospetto della morte, le piccole finzioni di ognuno si scontrano con la dura realtà. La resa dei conti riserverà però ad ognuno una sorpresa. Ne abbiamo parlato con l’autore.

Partiamo dal titolo: «Una luce naturale». Ci aiuti a capire.

Lo spiegherei così: è capitato a tutti di trovarsi in una stanza buia, d’estate, di mattina presto o nel tardo pomeriggio, con le persiane chiuse. Nella stanza buia entra una proiezione di luce che mira la parete opposta. Nella luce danza un pulviscolo. Tu la osservi e hai la sensazione che contenga qualcos’altro, qualcosa di semplice e insieme di essenziale. Improvvisamente sembra che questa cosa così immateriale ci sveli qualcosa del fatto che siamo al mondo, della profonda realtà di questo fatto incredibile, implausibile che è essere al mondo. Il libro racconta questa sensazione.

Parlare di «luce naturale» presuppone che ci sia pure una luce artificiale.

La luce naturale è quella che nel finale attraversa i personaggi di questo libro. Quella artificiale è quella che proiettiamo ogni giorno su noi stessi: è la luce del «come ce la raccontiamo», è l’idea che abbiamo di noi stessi e che vorremmo tanto che anche il prossimo avesse.

I tre fratelli, ognuno a suo modo, hanno un rapporto distorto con la propria realtà, e la madre morente è quella cosa al cospetto della quale le loro auto-illusioni crollano miseramente. Lei è un conoscitore di Tolstoj e dei russi in generale, e qui c’è sicuramente sullo sfondo l’ombra di «La morte di Ivan Il’ic».

Sì, c’è. La morte della madre è una sorta di reagente chimico per le condizioni di irresolutezza delle vite dei tre fratelli. Flavio è un attore fallito e assetato di vendetta, Tiziana è una donna che soffre perché con gli anni sta perdendo la capacità di seduzione che ha sempre avuto. Gabriele è uno che non ne azzecca una, è lo sprovveduto per eccellenza, il pollo che tutti hanno spennato... Ognuno dei tre fratelli si avventa sui soldi della possibile eredità. Ma anche lì ci sarà una sorpresa.

Come nascono, in genere, i suoi personaggi?

I miei personaggi si nutrono di quello che vedo e che ascolto stando tra la gente. Sono un buon osservatore dell’umanità, al supermercato, in stazione. E anch’io partecipo dell’umanità che vedo. Tutti noi, me compreso, a proposito di noi stessi ci raccontiamo «balle» dalla mattina alla sera. Mi pare che uno dei problemi del nostro tempo è che c’è un senso della realtà diventato più labile, e anche un senso di noi stessi che è più labile. Come narratore, non giudico mai i miei personaggi, ma in ognuno leggo me stesso, leggo aspetti che mi riguardano o che potenzialmente mi potrebbero riguardare.

In più, in «La luce naturale» abbiamo a che fare con tre fratelli.

Mi interessavano soprattutto i rapporti di potere che esistono tra fratelli: osservare come la corruzione, l’imbroglio, l’astuzia, e altri imperativi poco nobili si insinuano dentro i loro rapporti.

Sono temi forti, ma lei ha deciso di ambientare il suo romanzo ad agosto in un hotel al mare, dove tutti pensano solo a divertirsi.

Sì, questa madre ha il «cattivo gusto» di finire i suoi giorni in una camera d’albergo, dove la morte - per il gestore dell’hotel e per i tre fratelli stessi - diventa qualcosa di scomodo, qualcosa da nascondere e di cui vergognarsi.

Che cosa realmente mette questi tre fratelli uno contro l’altro?

Loro odiano il fatto di percepire che mancava tanto così e ciascuno di loro avrebbe potuto essere l’altro. Credo che tra parenti stretti il problema di fondo sia proprio questo: il fatto di essere fatti della stessa pasta, della stessa materia esistenziale. Penso che le battaglie più cruente uno le combatta con se stesso, anche per interposto fratello o sorella, o madre o padre.

Nel difficile periodo storico che stiamo vivendo, quale è il senso del narrare - ad esempio - una storia come questa? Che cosa la muove a raccontare?

Queste sono domande che uno scrittore si fa, e soprattutto nel momento in cui le ragioni per andare avanti sbiadiscono. La risposta più onesta è che scrivere risponde a una necessità. In realtà, io scrivo perché vedo manifestazioni di infelicità in ogni dove. Io vivo qui e ora, e mi interessa raccontare il qui e ora. Scrivere mi dà l’opportunità di guardare nelle profondità dell’umano, di raccontare i sentimenti umani importanti nel mio tempo. Mi interessa osservare: desideri, infelicità, delusioni; e soprattutto mi interessa quel momento in cui la realtà non segue un corso prevedibile, ti sorprende all’improvviso, e tutto vacilla. Il finale del libro, lo confesso, ha sorpreso anche me.

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