Cultura

«In un mondo basato sui dati sono solo le storie a emozionarci»

Anna Masera
Frank Rose, antropologo digitale americano: «Ci vorrà tempo per vederci chiaro, nel frattempo rischiamo di essere manipolati»
Frank Rose è in Italia per presentare il suo libro
Frank Rose è in Italia per presentare il suo libro
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La metafora dell’acqua per raccontare la nostra realtà viene dallo scrittore americano David Foster Wallace: «Ci sono questi due giovani pesci che nuotano e a un certo punto incontrano un pesce anziano che va nella direzione opposta, fa un cenno di saluto e dice: "Salve, ragazzi. Com’è l’acqua?". I due pesci giovani nuotano un altro po’, poi uno guarda l’altro e fa: "Che cavolo è l’acqua?"». Come ha spiegato poi un altro americano, lo psicologo Jerome Bruner: «Viviamo in un mare di storie, e come un pesce che sarà l’ultimo a scoprire l’acqua, noi abbiamo le nostre difficoltà a capire come si fa a nuotare nelle storie».

Ecco, in un nuovo libro prova a insegnarcelo Frank Rose, antropologo digitale, anche lui ovviamente americano. Perché lo «storytelling» è nato negli Usa, anche se l’arte di raccontare storie è antica e noi italiani la conosciamo benissimo. Autore di «Immersi nelle storie», Rose è uno scrittore e giornalista che si occupa di nuovi media e del loro impatto sulla società. Insegna Strategic Storytelling a dirigenti aziendali di tutto il mondo alla Columbia University, dove dirige il premio Digital Dozen al Digital Storytelling Lab.

È in Italia per presentare «Il mare in cui nuotiamo - Lo storytelling strategico in un mondo governato dai dati» (Codice edizioni). Lo abbiamo intervistato ieri a Milano.

C’è un nuovo modo di raccontar storie nel digitale?

Le tecnologie e strategie che i media digitali adottano per il controllo e l’orientamento del consenso ci portano nel nucleo dei meccanismi narrativi: le neuroscienze hanno dimostrato che i processi che governano il pensiero creano strutture narrative che fanno parte di noi. Le storie quindi sono indispensabili anche nella nuova società digitale per leggere e interpretare la realtà. E conoscere gli strumenti dei nuovi narratori ci serve per non esserne controllati.

Shoshana Zuboff docet...

Sì, l’autrice de «Il Capitalismo della Sorveglianza» ci ha messo in guardia: i social media hanno effetti benefici per il fatto che non siamo più solo consumatori e abbiamo tutti la possibilità di far sentire la nostra voce, ma - specialmente quando l’opinione pubblica è così polarizzata e trionfa il populismo - facilita storytelling infarcito di falsità e prima di uscire da questo incubo ci vorrà tempo e sarà complicato, serve consapevolezza e quindi educazione. Siamo come nell’era pre-regolamentazione delle compagnie telefoniche, ci vorrà tempo per vederci chiaro e nel frattempo rischiamo di essere vittime di piattaforme che ci controllano e che vengono manipolate da chi vuole sorvegliarci.

Cosa pensa delle nuove regole europee per proteggere i diritti digitali dei cittadini?

Vedo che l’Europa sta mostrando la strada a tutti con la sua nuova regolamentazione, prima il Gdpr per la privacy e adesso il Dsa (Digital services act), ma siamo ancora in mezzo al guado. Gli studi di psicologia cognitiva e neuroscienze indicano che alla gente non importano i dati, credono a quello che vogliono credere. Non a caso in periodi come quello pandemico, in cui la gente si sentiva impotente, sono fiorite le teorie cospirazioniste. Con storytelling che pur senza basarsi sui fatti fa appello alle emozioni per raggiungere le persone attraverso storie che generano risposte emozionali.

I media tradizionali cosa possono fare per contrastare questo scenario?

Il problema dello storytelling dei giornali è che i lettori sono stanchi di cattive notizie e cercano un giornalismo di servizio che offra contesto e - nell’era dello storytelling sui social - possibilità di partecipare al racconto. Poi è ora di sfatare il mito della pubblicità targettizzata: non è affatto vero che raggiunge i clienti ideali, l’ha inventata Google ma è un’illusione e prima o poi le aziende se ne renderanno conto. Lo storytelling sui big data, l’idea che si possa prevedere che cosa desideriamo sulla base della nostra navigazione online, è una pia illusione. L’obiettivo del libro è dire alle aziende che solo chi sa intrattenere il pubblico con belle storie attira l’attenzione e ottiene fiducia. Insomma, fuor di metafora: «It’s entertainment, stupid».

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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