«Felice chi è diverso»: un libro che invita a non tradire i sogni di gioventù
Francesco Savio è uno scrittore bresciano che di mestiere fa il libraio. Oggi lavora a Bergamo, ma ha vissuto a lungo a Milano; e il protagonista del suo sesto romanzo, «Felice chi è diverso» (Fernandel ed., 112 pp., 13 euro), gli assomiglia molto, visto che è a sua volta libraio in una grande libreria milanese. Ma Savio tiene a precisarlo: la sua è «un’opera di finzione». La presenterà a Brescia mercoledì 10 gennaio alle 17, conversando con Carla Boroni, nella sede della Fondazione Civiltà Bresciana in vicolo San Giuseppe 5.
Il protagonista del romanzo si alza alle 4,55, attraversa il quartiere di Monteplano dove abita, prende la metropolitana e poi il treno, affollato da gente rumorosa e curva sul telefono (i «phono sapiens»). In libreria, il primo atto è «rifornire la parete dei libri inutili», quindi risponde alle domande dei clienti («ma io preferisco chiamarli lettori»). In ogni momento gli nascono osservazioni, riflessioni sul suo mestiere, sul mercato editoriale, sullo scarto tra aspirazioni ideali e difficoltà della vita quotidiana, sullo stato dell’Italia e degli italiani. E in ogni momento cerca di mantenere viva la «visione» originaria, quella che fin da giovane lo spinse ad amare la lettura e a guardare la realtà «come fosse composta dalle pagine di un libro».
Savio, alla fine del libro una lunga bibliografia elenca i testi evocati nel racconto. Come si mescolano realtà e letteratura?
I libri rappresentano per me qualcosa di sacro. Le letture che faccio mi accompagnano e le inserisco nel modo di ragionare del narratore o dei personaggi. In questo caso, ho voluto aggiungere una bibliografia perché ho visto scrittori e libri come veri e propri personaggi della storia, legati alla professione del protagonista.
Anche il titolo è un richiamo letterario…
Viene da una splendida poesia di Sandro Penna. Trasmette un messaggio di positività in relazione all’essere diversi, tema presente nel romanzo.
La difficoltà di mantenersi “diversi”, di restare fedeli nel tempo alla propria vocazione?
Sì, e di non tradire l’illusione che si aveva da ragazzi, conservando un po’ di quei sogni. È difficile resistere, anche a causa di alcuni status che la società sembra imporre o di bisogni creati in modo artificioso. Ma i libri restano la più grande ricchezza.
C’è un misto di amore per il mestiere e disincanto per la sua dimensione più commerciale…
È certamente importante che si vendano libri e le persone leggano. Il mercato, tuttavia, è anche invaso da produzioni seriali che tolgono spazio a editori piccoli o a scrittori validi. La qualità fatica a emergere, perché le librerie - quelle di catena in particolare - hanno meccanismi molto rigidi: se un libro non vende per un mese, viene reso. Io però ho sempre visto il mio mestiere come una sorta di vocazione religiosa: ho ancora la fortuna di essere felice quando esce un buon libro.
In libreria oggi entrano più clienti o più lettori?
Noto una grande differenza tra Milano e città più piccole come Bergamo. Qui sono riuscito a instaurare un rapporto più umano tra libraio e lettore, mentre a Milano - nel libro la descrivo nella sua affascinante follia - la quantità di persone impedisce di coltivare relazioni. In generale, credo che ci siano più clienti; ma i lettori esistono ancora, e cerco di coltivarli.
Se la letteratura ha una casa, scrive, la troveremo «nel dubbio, nel timore, nella disperazione trasformata in arte». In quali autori la trova?
Tra quelli che ho letto negli ultimi anni, direi Aldo Busi, Francesco Permunian, Michele Mari, Daniela Ranieri. E poi saggisti come François Jullien, Byung Chul Han, Michel Onfray, Giorgio Agamben, Luigi Zoja. Ma i non viventi, evocati nel romanzo, sono molti di più.
Da tifoso convinto, sogna che la Juventus diventi la prima «società di calcio con libreria»… Possibile?
Ho spedito alcuni miei libri ad Andrea Agnelli, che mi ha sempre risposto, e da lì è nata questa fantasia, l’idea di una libreria di catena con il logo della Juventus. Nel caso, io sono disponibile...
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