Fabio Treves: «Festaradio è il luogo ideale per accogliere il blues, musica dei diritti»

Il nome di battaglia è frutto dell’intuizione di un giornalista che, presentando un concerto milanese di una leggenda del blues come John Mayall, il «Leone di Manchester», argomentò: «Noi abbiamo Fabio Treves, il Puma di Lambrate».
Armonicista sopraffino votato al verbo del blues, che per lui è innanzitutto uno stile di vita, Treves è il pioniere del genere in Italia e si è speso come nessun altro per la sua diffusione e quella dei valori connessi («Fratellanza, dignità, rispetto, solidarietà» spiega), suonando dappertutto, dai teatri ai centri sociali, dagli stadi ai club, dalle carceri alla case di riposo. Stasera torna alla Festa di Radio Onda d’Urto, headliner in una serata imperniata sulla «musica del diavolo», che comincia con il bresciano Cek Franceschetti (e gli Stompers), prosegue con l’americano Neal Black & the Healers, per culminare (intorno alle 22) con la Treves Blues Band, in cui ci sono Kid Gariazzo a chitarra e voce, Gab Dellepiane al basso, Massimo Serra alla batteria.
Alla kermesse del Gatto Nero si entra liberamente fino alle 20, quindi con sottoscrizione di 5 euro. Tra le diverse iniziative di giornata, presentazione del romanzo «Lo scacchista del diavolo» di Girolamo di Michele (in Libreria, alle 19.30); laboratorio creativo «Crea la tua mascherina!» (allo Spazio Bambini, alle 21); musica a profusione dalle 23.45, al Chiringuito (dj set Tekno City), alla Tenda Blu (punk con Polo Territoriale + dj set con Helmut Bismarck) e allo spazio Patchanka (dj set di Irons & Vercetti).
Per parlare del lunedì in blues, abbiamo scambiato due chiacchiere con l’amico Treves.
Fabio, la Festa sembra avere istituzionalizzato una giornata dedicata al blues...
È scattata la scintilla per un genere che non è mai stato di moda e che mai lo sarà. Ma che si porta dietro valori di convivenza e fratellanza che dovevano per forza incontrare le istanze di una radio che si batte per ideali di giustizia ed equità. Sul piano dei diritti civili il blues è sempre stato all’avanguardia, basta pensare che all’inizio del secolo scorso le donne afroamericane lo cantavano come forma di emancipazione.
L’anno prossimo, per te sono cinquant’anni di carriera. Cosa stai preparando?
Un oceano di blues, da declinare in vari modi, spero con tanti amici e il mio gruppo. Sono poche le band che hanno raggiunto il traguardo del mezzo secolo in Italia... mi vengono in mente Nomadi, Pooh e Cugini di Campagna. A noi è mancata la tv, che ha veicolato e agevolato il pop, ma non mi lamento certo, orgoglioso di quanto fatto, felice e soddisfatto di quanto ottenuto.
Sottolinei spesso l’anima blues di musicisti italiani che talvolta si sono cimentati con il genere, ma non in maniera esclusiva, come Eugenio Finardi, Mauro Pagani, Pino Daniele, Lucio Battisti, Fabrizio De Andrè, Ivan Graziani, Pierangelo Bertoli, Alex Britti, Enzo Jannacci (più di tutti). Chi non lo ha mai fatto e dovrebbe farlo, secondo te?
Eros Ramazzotti: ne avrebbe i mezzi, l’attitudine, la voce. E ama il blues... Confido che prima o poi si butti.
Se avessi una bacchetta magica per far tornare in vita una leggenda del blues con cui collaborare, su chi scommetteresti?
Credo su Robert Johnson (mitico bluesman degli albori, ndr). Ma De Andrè verrebbe subito dopo («Quello che non ho» è un blues pazzesco), mentre non dico Pino Daniele soltanto perché lui, per me, non se n’è mai andato.
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