Cinque libri consigliati dalla redazione del GdB per novembre
Torna sempre comoda una lista di libri cui attingere nelle lunghe serate sul divano di novembre, soprattutto quando si ha voglia di una bella storia magari non troppo impegnativa ma avvincente e potenzialmente interessante. Ecco, questo mese abbiamo alcuni titoli che potrebbero fare al caso vostro. C'entrano una gatta, gli All Blacks e il Piccolo Principe.
Trovate anche però l'ultimo romanzo di Cognetti e il libro di uno scrittore eritreo che non capita facilmente fra le mani.
Se queste proposte di libri consigliati non vi soddisfano, potete sempre dare un'occhiata a quelli di ottobre. Ma anche di settembre. Per scriverci basta cliccare sulla firma in fondo a ogni recensione.
Ci risentiamo a dicembre.
«Giù nella valle»
di Paolo Cognetti
(Einaudi, 2023, pp. 128, 16 euro, ebook 9,90 euro)
L'ultima fatica di Paolo Cognetti è una specie di sogno vigile. Così essenziale e scarno e levigato che la sua lettura dura meno di un sonno ristoratore. Al tempo stesso è un lungo viaggio che dalla Valsesia attraversa l'oceano e porta in Canada. Dai boschi alla tundra e ritorno. In «Giù nella valle» è riproposto, come in «Otto montagne», il dipinto a pennellate rapide del rapporto tra due uomini, due fratelli. Uno è come un larice che cerca il sole, Luigi, e l'altro è un abete che si nutre d'ombra, Alfredo. In comune hanno sangue, alcol e la barba che profuma di umidità e di muschio. A dividerli c'è un fiume che scende rabbioso ma crea anche pozze limpide in cui fare il bagno.
Cognetti si conferma un purissimo cantore della montagna e della quotidianità schietta di chi abita gli altipiani, così come di chi sta nei fondovalle. I paesaggi e i dialoghi e i suoni e gli animali si insinuano tra i bianchi e neri della pagina, ruzzolando con il lettore fino alla fine. Commovente la chiusura con «La battaglia degli alberi», ispirata al poema «Cad Goddeu» di Taliesin, reinterpretato con orgoglio ambientalista. Resta però una sensazione di incompiuto, di altro che bisogna sapere. È tutto svelato nella Nota dell'autore, che dà conto della musica che è chiamata a fare da sottofondo a «Giù nella valle», l'album «Nebraska» di Bruce Springsteen, e allora tutto risuona.
Cognetti lo scorso 31 ottobre ha messo online il sito web della fondazione che porta il suo nome, creata nel 2023 con sede in un rifugio aperto dallo scrittore accanto a casa sua, in Val d'Aosta: l'obiettivo è ospitare artisti, studiosi e conoscitori della montagna, per permettere loro di creare progetti e vivere di condivisione. Al cospetto, naturalmente, della natura maestosa protagonista dei suoi romanzi.
(Francesca Renica, vicecaposervizio redazione Web)
«La gatta ha visto tutto»
di Dolores Hitchens
(traduzione di Chiara Rizzuto, Sellerio, 2023, pp. 360, 15 euro, e-book 9,99 euro)
Per chi, come me, non di rado sceglie un libro in base al suo titolo o alla copertina, risulta assolutamente irresistibile «La gatta ha visto tutto» di Dolores Hitchens (San Antonio, Texas, 1907-Orange County, California, 1973), che cattura lo sguardo con un dipinto di Chie Katayama.
Il testo è la prima avventura che vede protagonista Miss Rachel, investigatrice dilettante, e la sua nera e lucente gatta Samantha, coinvolta nella trama di una serie di delitti. Il libro si legge piacevolmente, ma il disvelamento del/della colpevole è decisamente la cosa meno interessante. Sono altri i motivi che rendono avvincente questo libro.
Intanto, la prefazione di Joyce Carol Oates, scrittrice e intellettuale americana tra le più note, nata nel 1938, lo stesso anno in cui la Hitchens inizia a scrivere (con vari pseudonimi) i suoi tanti libri, molti dei quali gialli. Libri, scrive la newyorkese Oates, che «meritano di essere riscoperti specialmente alla luce della letteratura poliziesca femminile e dei cat mysteries contemporanei».
In «La gatta ha visto tutto» (titolo originale: «The Cat Saw Murder», 1939) ad attirare è il modo di raccontare dell’autrice, che narra la vicenda mettendo in dialogo i punti di vista di Miss Rachel - esile e anziana signora con la passione per le indagini, che veste solo di taffetà grigio - e del tenente Stephen Mayhew, fisicamente l’opposto, sovente paragonato ad un orso. Il contrasto fra i due è uno dei motivi di divertimento di una narrazione, che conosce anche momenti da horror. Il tutto però accade come in un telefilm: è meravigliosamente fittizio e leggero, il sangue è sugo di pomodoro e le mani mozzate sembrano residui di Halloween. Nulla fa mai dubitare che al lettore sarà servito un rasserenante finale con un tocco di romanticismo. E infatti è così.
«La gatta» è il primo di una serie di dodici libri. Grazie all’abilità della scrittrice, non è escluso che chi legge il primo desideri poi di continuare piacevolmente con gli altri undici.
(Paola Carmignani, redazione Cultura e Spettacoli)
«Rubare la notte»
di Romana Petri
(Mondadori, 2023, pp. 264, 19 euro, ebook 16,15 euro)
Da bambino era soprannominato re Sole dalla madre di cui sarebbe rimasto innamorato tutta la vita. Di Luigi XIV Tonio possiede il desiderio tirannico di primeggiare nei sentimenti altrui, ma il suo approccio spesso infantile alle cose, questo volere tutto e subito, si espande oltre i sentimenti e abbraccia la sua intera esistenza, a partire dalla sua più grande passione: il volo.
Non a caso il titolo del romanzo di Romana Petri su Antoine de Saint-Exupéry allude al duplice significato in francese del verbo «voler»: volare e rubare. «Rubare la notte», finalista al Premio Strega 2023 e presentato all'ultima edizione di Librixia, racconta la vita di uno scrittore che si conosce pochissimo nonostante sia autore di uno dei libri più tradotti al mondo, «Il piccolo principe», di cui quest’anno si celebrano gli 80 anni dalla prima pubblicazione. Petri non scrive una biografia, ma si immerge nella vita di Saint-Ex (Tonio nel libro) come se fosse la sua. Tonio trascorre un’infanzia fatata segnata da tremendi lutti, scopre il volo, diventa pilota civile prima e poi militare, viaggia per il mondo per consegnare la posta e poi per partecipare a missioni di guerra, si sposa, ha tantissime donne, gode di enorme celebrità ma nasconde lati d’ombra profondi. Scopriamo uno scrittore che ha vissuto un romanzo oltre a scriverne parecchi e che si definiva aviatore prima che scrittore. Ne seguiamo le peripezie per mezzo globo, tra deserti, città straniere e cieli - soprattutto cieli - finché non lo vediamo scomparire dietro le nuvole.
Chi è stato Saint-Ex? Molte cose, sfavillanti e sfuggenti. Non serve avere amato «Il piccolo principe» per appassionarsi alle sue vicende (io, per esempio, non sono mai stata tra i fan). Ma «Rubare la notte» è da leggere se si rimane intrigati dal caleidoscopio sapientemente costruito da Petri per restituire la vita straordinaria di uno scrittore scivolato bizzarramente nell’ombra.
(Laura Fasani, redazione Web)
«Fuga dalla Piccola Roma»
di Haji Jabir
(prefazione e traduzione di Gassid Mohammed, Edizioni L’Arcolaio, 2018, pp. 268, euro 13)
Il 3 ottobre scorso l'Italia ha ricordato una delle più terribili stragi del mare (e non solo) dei tempi recenti (e non solo). Quella degli oltre 300 migranti che annegarono a poche centinaia di metri dalla costa di Lampedusa nel 2013. Quelle anime perdute nelle profondità del Mediterraneo erano per la stragrande maggioranza di eritrei, giovanissimi per la quasi totalità. Da un Paese che nel 2011 contava ufficialmente poco più di 3 milioni di abitanti, si stima siano emigrati nel mondo oltre 750mila cittadini, circa uno su quattro. Il perché concorre a spiegarlo, con la suggestione di una storia d'amore in forma di romanzo, «Fuga dalla Piccola Roma», scritto dal giornalista di Al Jazeera e narratore Haji Jabir.
Eritreo di Massaua ma cresciuto a sua volta da emigrato a Gedda, in Arabia Saudita, per fuggire dalla trentennale guerra di indipendenza dall'Etiopia, l'autore racconta le vicessitudini di un giovane di Asmara (detta appunto «Piccola Roma», ai tempi in cui l'Eritrea era colonia italiana, per la sua bellezza e ricchezza architettonica) alle prese con la disperata ricerca di Selma, la giovane che ama, da cui all'oscuro di tutti aspetta un figlio, e che sparisce all'improvviso. Per rintracciarla il protagonista (senza nome, a rappresentare così tutti i giovani eritrei che versano nelle sue condizioni) sceglie volontariamente di lasciarsi condurre nell'inferno di Sawa, il campo di addestramento delle reclute al quale vengono avviati tutti i cittadini maggiorenni in vista di un servizio di leva che è di fatto permanente e che può durare anche decenni in un Paese che, allo strazio della povertà estrema, associa i rigori di una delle dittature più estreme del pianeta. Un universo semiconcentrazionario si spalanca agli occhi del ragazzo, tra sommersi e salvati, dai quali si separa fuggendo quando è chiaro che la sua amata non è lì.
Prende la via dell'esilio, con un viaggio disperato che è appunto quello reale di migliaia di giovani eritrei. Finisce nelle mani degli shiftà, i banditi che nei viaggi della disperazione gettano le reti del traffico di esseri umani e di organi. Poi, da un girone dantesco all'altro, prosegue la sua ricerca nel campo profughi di Shajrab, non lontano da Cassala, in Sudan, un limbo in cui un'umanità è in bilico tra attesa, miseria e sorprendente dignità. Anche quando l'aiuto di una volontaria italiana sembra spalancargli le porte dell'Europa, l'amore di Selma (che nelle pagine del romanzo mai appare se non attraverso ricordi e racconti dello sposo mancato) richiama il protagonista ad Asmara, in quella stessa Marsa Fatima, la strada in cui tutto ha avuto inizio e che dà il titolo originale al romanzo. Assieme alla clandestinità per la diserzione, lo attende un'amara sorpresa.
Come ricorda nella prefazione il traduttore, Gassid Mohammed, il protagonista rievoca anche alcuni tratti del Milton di «Una questione privata» di Beppe Fenoglio, a sua volta in cerca della donna che ama, quasi doppio della patria perduta. Questo Bilal del Corno d'Africa ci restituisce con il suo sguardo lucido ma spesso capace di un lirismo inatteso, il dramma spesso ignorato di intere generazioni di giovanissimi eritrei, stretti fra una nostalgia radicale della propria terra e l'urgenza di una vita lontana da oppressione e negazione dei più elementari diritti.
Sante Tacchinari
«Niente teste di cazzo»
di James Kerr
(traduzione di Matteo Mazzuca, Mondadori, 2019, pp. 196, euro 12,50)
Il titolo che più rispecchia l’anima del testo è quello originale: «Legacy», eredità. Per la versione italiana ne è stato scelto uno più ammiccante, peraltro pertinente perché è il tema di uno dei capitoli, ossia «Niente teste di cazzo». Sottotitolo: «Lezioni di vita e di leadership dagli All Blacks». Il libro, datato 2013, è uscito in Italia nel 2019, ma i recenti mondiali, nei quali i «Tutti Neri» hanno conquistato il secondo posto, battuti in finale di un sol punto dal Sudafrica, lo hanno riportato di attualità.
Il senso vero dell’agile ancorché intenso volume di James Kerry, rinomato mental coach americano, sta dunque nel concetto di lascito, eredità, connesso ai valori dell’esempio, delle regole, della squadra, della comunità.
«Lascia la maglia in un posto migliore rispetto a dove l’hai trovata» il monito, il mantra. Perché «non possiedi la maglia, sei solo un corpo che la veste: gli atleti attuali giocano per quelli che li hanno preceduti e per quelli che a loro succederanno». Una lezione che si dovrebbe esser capaci di trasmettere, perché il leader vero sa insegnare e, soprattutto, sa «passare la palla» (indietro, nel caso del rugby): è, cioè, capace di creare altri leader, di garantire una successione. Una lezione che arriva dalla tradizione della squadra più iconica dello sport mondiale.
La squadra celebre anche per la «Haka» propiziatoria, la danza Maori che, all’inizio di ogni partita, omaggia gli spiriti degli aborigeni, gli avi dei neozelandesi; la squadra per la quale «la forza del branco è il lupo, la forza del lupo è il branco». Una lezione che dovrebbe essere fatta propria da chi, nello sport, nella vita, pensa che dopo di lui ci sia il diluvio, si sente immortale e non morituro, vive nell’assoluto del sé, non crea una discendenza, non ha l’umiltà né la saggezza di «piantare un albero pur sapendo che non lo vedrà crescere».
(Roberto Bernardo, redazione Interni ed Esteri)
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