Bruno Boni, «sindaco popolare e unico, capace di grande visione»

Quella di Bruno Boni, sindaco di Brescia dal 1948 al 1975, è una figura imprescindibile per comprendere la città del Secondo dopoguerra.
La conferenza dedicata al «carissimo sindaco per sempre», come lo definì Mino Martinazzoli nell’orazione funebre, concluderà lunedì 11 aprile alle 17.30 al Teatro Sancarlino (corso Matteotti 6) il ciclo di incontri «Storie bresciane» promosso dal Centro teatrale bresciano e dedicato alla ripartenza di Brescia e dell’Italia negli anni dal 1945 al 1963. A parlare di Boni sarà Roberto Chiarini, coordinatore scientifico della rassegna, aiutandosi con le letture affidate all’attore Luciano Bertoli.
L’ingresso alla conferenza è gratuito con obbligo di prenotazione, compilando l’apposito form sul sito del Centro Teatrale Bresciano.
Già professore ordinario di Storia contemporanea all’Università degli Studi di Milano, editorialista del Giornale di Brescia, Chiarini tratteggia un bilancio positivo dell’iniziativa, propedeutica alla mostra che, nell’autunno di quest’anno, sarà dedicata alla ricostruzione dell’Italia e di Brescia nel dopoguerra: «Abbiamo cercato di fare storia locale ma non localistica, affrontando questioni nazionali e inserendo le vicende di Brescia nel grande processo delle trasformazioni generali».
In questo contesto, prof. Chiarini, quali sono le peculiarità di Boni?
È una figura fuori dal comune, con una vocazione a sindaco più unica che rara. Non pensò mai di andare a Roma, se non per tutelare gli interessi di Brescia. Per lui era meglio essere primo a Brescia che secondo o terzo a Roma. Ma c’era anche una profonda passione per ogni aspetto del lavoro di sindaco.
Un ruolo che accentrava tutti i poteri…
Non c’è argomento che Boni lasci agli assessori, si occupa di tutto. Ma è particolare anche il suo modo di fare il sindaco, come un primo cittadino che sta in mezzo agli altri cittadini. Si rapportava a loro in maniera frontale e popolare: li salutava, camminava sotto i Portici ogni giorno per conoscere i bresciani, riceveva tutti. Ad ogni nascita mandava una lettera di congratulazioni alla famiglia. Questo atteggiamento, che gli ha portato moltissimi voti, ha dato ai suoi concittadini la sensazione di essere persone e non numeri.
Come affrontò il governo della città?
È un altro aspetto fondamentale. Al suo approccio popolare corrispondeva il farsi carico di tutti i temi non in maniera routinaria, ma esercitando una grande visione. Con lui ebbe luogo la ricostruzione materiale della città. Affrontò le forti tensioni sociali con l’intento di formare un tessuto sociale compatto e solidale. Dimostrò uno sguardo avveniristico: lavorò per dotare Brescia di un’università, promosse grandi opere come la funivia della Maddalena, il cavalcavia Kennedy, la galleria del Cidneo.
Fu anche promotore della metanizzazione di Brescia…
L’Asm in questi anni diventa di primaria importanza, per i servizi offerti ma anche per l’apporto al bilancio del Comune. Anche i villaggi Marcolini crescono su conferimento delle aree da parte del Comune. Un fervore creativo e lungimirante, unico da ogni punto di vista.
Come si rapportava col suo partito e gli avversari politici?
Nella Dc non si faceva irretire dalla logica delle correnti. Formalmente era un fanfaniano, ma impose a Fanfani, che non lo voleva, la prima elezione di Martinazzoli a cui fu estremamente legato. Aveva una visione della politica connaturata alla sua cultura cattolica e in particolare degasperiana: andavano isolate, a destra come a sinistra, le frange violente ed estreme, che nell’Italia del tempo non mancavano. Nello stesso tempo non c’era in lui nessuna partigianeria: i suoi bilanci, anche negli anni più tesi della guerra fredda, furono sempre approvati anche dall’opposizione.
La passione civile si riversava anche nello sport…
È stato sempre un supertifoso del Brescia. Il suo impegno per la rinascita della Mille Miglia fu decisivo. Non c’è aspetto della vita che non abbia visto il suo interessamento, in un orizzonte moderno e non municipalistico.
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