Auroro Borealo è tornato e racconta «il brutto dappertutto»
Da lì viene e lì ritorna. Auroro Borealo, pseudonimo di Francesco Roggero, bresciano classe ’84, ne ha combinata un’altra: quell’aurora boreale di cui ha storpiato il nome oggi è diventato il titolo del suo nuovo album.
Gli annunci dei suoi dischi o dei suoi singoli sono sempre un «caso social»: lo scorso anno aveva lanciato il suo EP «Eh!» direttamente su Tik Tok. Stavolta ha nascosto la tracklist dell’album in una delle «canvas» (sono le illustrazioni animate che fanno da sfondo alla canzone mentre è in riproduzione su Spotify, ndr) di un suo vecchio pezzo. Nelle stories di Instagram, lunedì, ha lanciato l’indizio: coloro che avessero indovinato in quale traccia si nascondeva la scaletta, avrebbero potuto ascoltare il disco in anteprima. Detto fatto: i suoi fan più accaniti hanno scovato l’indizio in «Vola mio mini Pony». Tutti gli altri hanno dovuto aspettare la mezzanotte dell'8 marzo .
«Tra 12 ore esce il mio nuovo disco, si chiama Aurora Boreale e per la prima volta parla di amore», commenta il cantante nella descrizione di una foto su Instagram dove si immortala davanti alla fermata della metro di Milano «Cologno Nord», che suggerisce il titolo di una delle otto tracce, «Cologno Lord».
Dissacrante, istrionico, con uno sguardo unico sui fatti del presente, stavolta Auroro si nasconde tra i giochi di parole per parlare di un sentimento immortale: l’amore. Che, tuttavia, è riuscito a raccontare senza uniformarsi ai suoi contemporanei: non aspettatevi quindi rime alla «sole cuore amore» ma piuttosto grandi metafore da Millenials: «Tu satana io sottone, tu Helvetica io Comic Sans» o grandi dichiarazioni da poeta del periodo di Superbonus, inflazione folle e anelito verso il mattone come «Ti, amo, il mutuo lo accendiamo».
E in un periodo di inverno demografico non può mancare una traccia come «Quando facciamo i bambini?»: Auroro non dà risposte alla domanda più gettonata nei secoli, ma squarcia il velo sui cliché che accompagnano l’arrivo dei figli, che stravolgono la vita di coppia («a Capodanno i trenini e ad ottobre i pannolini»).
Il disco contiene anche due potenziali hit dalle melodie quasi estive, che ricordano il pop dei primi anni Duemila, come «Cologno Lord» (un feat. con una band emergente dell'indie targato Anni ‘20, Le feste di Antonacci) - in cui si rende poetico e quasi bucolico anche il panorama urbano della Brianza - e «Brutto dappertutto» dove rivendica, in un mondo violento e caotico, il suo atto di coraggio: vedere il brutto ovunque, con una certa facilità.
Poi «il miglior cantante stonato italiano» (come si definisce lui stesso) - dopo averci fatto ridere e anche un po’ ballare, con canzoni che ricordano gli Elio e le Storie Tese di «Cara ti amo» - chiude il disco con «La nostra tribù», una sorta di ballad tutta acustica in cui lascia da parte (senza esagerare) l’umorismo, per virare verso la malinconia ricordandoci che «non è detto che semplificando si risolva il problema».
Insomma, Auroro stavolta gioca davvero a fare il cantore di Millenial e Generazione Z, tra un'eco de «I Cani» e la forza dirompente degli Skiantos, senza mai perdere di vista la sua identità musicale.
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