Cucina

La bionda che piace si può fare anche in casa

Tanti birrifici nascono come la naturale evoluzione artigianale d’una passione coltivata per anni tra le mura domestiche.
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Farsi la birra in casa? Molti birrai di oggi hanno cominciato così. Il procedimento è lungo e abbastanza tortuoso, ma una volta imparato è abbastanza semplice tanto che non sono pochi i bresciani che si fanno la loro birra in casa e giurano che è la migliore del mondo. Attrezzatura? Il realtà bastano un pentolone e un termometro. Le materie prime si comperano e ci sono anche a Brescia negozi specializzati che ti vendono proprio tutto quanto serve (e magari anche qualche consiglio).

La birra è un prodotto fermentato esattamente come il vino, solo che nell’uva ci sono degli zuccheri che possono fermentare anche da soli perché i lieviti sono sulla buccia dell’uva. Nel caso della birra si parte dal malto che non contiene zuccheri, ma amido. Si tratta di trasformare l’amido in zucchero e poi la strada è parallela a quella del vino.

Il prodotto di partenza è il malto che è normalmente di orzo, ma una particolare qualità di orzo distico che in Italia si coltiva poco. Poi si possono usare anche altri cereali come il frumento, la segale, persino il riso. La maltatura consiste nel far germinare il cereale in ambiente umido. Quando spunta la prima radichetta (bastano 7-8 giorni) si blocca tutto con il calore, ma intanto gli enzimi hanno trasformato gli amidi in destrine e maltosio.

Se la germinazione è bloccata a 70-80 gradi si ottengono malti chiari (per le birre bionde) se si sale fino a 200 gradi si ottengono malti torrefatti (per le birre scure).

Quando arriva in birreria, il malto viene macinato grossolanamente, aggiunto di acqua e fatto bollire (a casa nel famoso pentolone). Sembra facile, ma la bravura del birraio sta nel tenere la brodaglia (si chiama «cotta») ad una certa temperatura (ad esempio 72 gradi) per un certo numero di minuti. L’operazione consente di estrarre le sostanze volute e non far emergere quelle sgradite.

A questo punto si aggiunge il luppolo ed eventuali altri aromi (i belgi adorano il cardamomo e la buccia d’arancio, ma non c’è limite alla fantasia).

Filtrata la cotta, che a questo punto è diventata mosto come quello del vino, la si mette in un fermentatore dove si aggiungono i lieviti. Qui la birra resta un tempo variabile a seconda dei lieviti usati e del risultato che si vuole ottenere.

I lieviti sono di due famiglie (con moltissime varianti): il Saccharomyces carsbergensis per le birre a bassa fermentazione (quelle più leggere e beverine) il Saccharomyces cerevisiae per le birra ad alta fermentazione (quelle più toste). In realtà i nomi sono derivati da un distinzione empirica: i lieviti ad alta fermentazione vengono in superficie, quelli a bassa restano sul fondo.

C’è una terza via possibile solo in alcune zone del Belgio vicino a Bruxelles: la fermentazione spontanea è provocata da lieviti e batteri presenti nell’aria che agiscono direttamente sul mosto. Il processo di fermentazione può durare anche mesi opersino anni e avviene solitamente a temperatura ambiente in fusti di legno.

Ma torniamo alla nostra ricetta di casa. La birra fermentata viene poi messa in fusti a maturare. I migliori la fanno maturare abbastanza a lungo, anche alcuni mesi.

Quando è pronta la birra va infustata o imbottigliata. Si può fare in due modi. Il più diffuso è l’imbottigliamento sotto pressione, ma si deve disporre di un contenitore per la fermentazione a tenuta ermetica dove un po’ di anidride carbonica si forma spontaneamente. Così facendo la birra è più stabile e dura un po’ di più. L’altro sistema, più antico, è quello della fermentazione in fusto o in bottiglia. Si travasa la birra e quindi si aggiunge un pizzico di lievito ed un po’ di zucchero. Il metodo si segue spesso per necessità, ma in molti casi anche per una scelta stilistica del mastro birraio.

A questo punto rimane una domanda. Che cosa c’entra il luppolo, che è amaro, con la birra? Il luppolo, di cui esistono decine di varietà (alcune pregiatissime e costose), è stato introdotto all’inizio come conservante. La birra infatti era solo fresca di cantina. Poi si è scoperto che la rendeva più gradevole.

La birra in realtà è dolciastra. Abbiamo visto che gli amidi si trasformano in zuccheri che, in piccola parte, restano anche dopo la fermentazione. Si rischiava di berne poca. Del luppolo (si usa il fiore femminile essiccato) si fa ormai un uso sapientissimo per dare un certo carattere alla birra. Dal punto di vista gustativo sostituisce la acidità nel vino. Più una birra è luppolata più si adatta ad accompagnare cibi anche grassi e saporiti, se c’è poco luppolo uscirà una birra da bere come dissetante.

Nella preparazione c’è un ultimo passaggio che l’industria è costretta a fare per esigenze commerciali: la pasteurizzazione. Cosi troverete la birra fuori dal banco frigo. Ma sterilizzando tutto si perdono un sacco di profumi e quindi nessun birraio artigianale fa una cosa del genere, come del resto normalmente non filtra la birra che rimane talvolta torbida. Ma la birra non pasteurizzata va tenuta al fresco anche durante il trasporto e quindi è preferibile consumarla a km zero. Una pacchia per i piccoli produttori di casa nostra.

Gianmichele Portieri

 

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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