Cosa c'è da imparare dal Vinitaly 2019
Sempre biologico, spesso rosato e da uve autoctone. È questa l'ipotetica bottiglia del vino italiano di domani, così com'è emersa con nitore dal Vinitaly chiusosi battendo ogni record. Dopo quattro giornate intense di assaggi, commenti e affari sono infatti proprio queste le valutazioni di tendenza, pur se non ancora compiutamente di quantità, che paiono farla da padrone al tirar delle somme dall'immaginario balcone veronese affacciato sul vigneto italiano.
Più conferme che novità, ché i prodromi d'una profonda trasformazione erano già chiari nelle edizioni degli anni scorsi e nella gran messe di presentazioni e anteprime che ha segnato i mesi passati, ma certo a Verona se n'è avuta una plastica dimostrazione. E se il gioco di scorgere il futuro guardano al presente porta in sé più d'un azzardo, i tempi inevitabilmente lunghi delle trasformazioni in vigna e in cantina testimoniano la solidità d'una direzione di marcia ben chiara.
A cominciare dalla vocazione «bio» ,seguita da un numero sempre più ampio di aziende grandi e piccole per le decine di migliaia di prodotti illustrati al salone. Una tendenza non solo e non tanto relegata tra i marchi dell'Organic Hall, il padiglione all'esordio posto proprio in fondo alla lunga passeggiata nel centro fiera, ma pervasivamente presente in ogni corsia regionale dell'interminabile vetrina fieristica.
Organico, biologico, biodinamico, artigianale, naturale e altri ancora sono i termini, in verità per nulla intercambiabili, utilizzati dai produttori, anche se è ormai evidente il lento passaggio dall'improvvisazione dei primi anni alla via maestra della certificazione, a beneficio anche dei consumatori messi finalmente nella condizione di sapere con precisione cosa stanno bevendo. Una scelta, quella del biologico, che non si ferma peraltro alla correttezza delle pratiche di difesa della vite dai suoi storici e mai vinti nemici naturali, ma che si allarga ad una visione eco-sostenibile dell'intera filiera, dalla biodiversità dei terreni all'uso misurato dei solfiti, al risparmio energetico in cantina.
Quasi a testimoniare una presa di coscienza collettiva sul bisogno di cure che ogni attività umana deve avere sul nostro malconcio pianeta. Ed a gioirne non è solo la mente, ma anche il palato. I vini sgrammaticati, pieni di odori non sempre gradevoli, poco stabili del biologico d'antan sono infatti ormai solo un ricordo: quelli degustati al Vinitaly erano tutti esenti da difetti, da buoni a eccellenti, sempre ben al di sopra della sufficienza di valutazione gusto-olfattiva. Davvero un buon viatico per il domani, qualunque siano le nuove tendenze che ci aspettano.
Tra le quali un posto di primissimo piano, spetterà ai vini rosati. In effetti mai visto tanto rosa al Vinitaly, confermato da un più 18% dei dati di mercato dello scorso anno, ma con reali opportunità di ulteriore crescita. Certo la quota maggiore tra i vini italiani resterà forse per sempre appannaggio di bianchi e rossi, ma i produttori, anche in zone che il rosato non l'avevano mai visto, mostrano di credere in questa tipologia.
Fino a ieri il rosato stava infatti in disparte, salvo in alcune zone da sempre vocate come la nostra Valtenesi o il Bardolino e la Puglia, mentre oggi è ovunque in bella mostra, e insistono per proportene l'assaggio persino piccole e grandi doc con una tradizione di ben altro colore. Un caso per tutti la mini-denominazione di San Colombano al Lambro, unica milanese, che ha presentato il suo primo rosé. Rosati molto variegati: innanzitutto nell'intensità di colore, dal tenue appena accennato del buccia di cipolla fin quasi al rubino leggero e trasparente, ma pure nella quantità di zuccheri residui in una gamma completa dal secco al dolce.
Par insomma di capire che, com'è già successo qualche anno fa con lo spumante - divenuto tipologia sostanzialmente onnipresente e con l'utilizzo di vitigni a lungo considerati refrattari ad ogni rifermentazione - la nicchia dei rosati stia diventando una grotta larga e profonda.
L'altra tendenza ubiqua del Vinitaly 2019, anch'essa non nuova ma ormai palesemente acclarata, è la valorizzazione esponenziale delle varietà autoctone, meglio sarebbe dire tradizionali cioè da tempo immemore allevate in un territorio, giacché di correttamente autoctone ce n'è poche nell'intera enotria.
Chardonnay, merlot e cabernet, un tempo esibiti ad ogni angolo, oggi, pur presenti in tanti vini come apporto complementare, non vengono quasi citati nelle brochure e finiscono negli scaffali in fondo agli stand. Il proscenio è tutto dei vitigni capaci di caratterizzare un terroir, una zona di produzione, una terra: dal primitivo al negroamaro, dal fiano alla falanghina, dal verdicchio al frappato, alle mille malvasie, da vitigni con una storia millenaria ad altri salvati miracolosamente dalla fillossera e replicati ora con moderna attenzione, è una continua intrigante scoperta.
Un ginepraio esaltante di nomi, profumi e sapori diversi che hanno sostituito la forza omologante delle uve francesi, un tempo sinonimo di successo internazionale e oggi, per la medesima ragione, a rischio di anonimato. La competizione insomma, soprattutto a livello internazionale passa dall'identità riconoscibile, apprezzabile, non assimilabile ad altro. Ed è una gran fortuna, giacché non fa conoscere solo un vino o un marchio ma sempre porta con sé il valore unico d'un territorio.
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