Veglia delle Palme, migliaia di giovani in Duomo col vescovo Tremolada

Marco Papetti
«L’amore sincero invita ad accogliere il dono e fidarsi» le parole rivolte ai ragazzi dal pastore della Chiesa bresciana
  • La Veglia di Pasqua nel Duomo di Brescia
    La Veglia delle Palme nel Duomo di Brescia - Foto Marco Ortogni/Neg © www.giornaledibrescia.it
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AA

Amore e libertà. Ma anche domande, come quella riprodotta a grandi lettere sul sagrato del Duomo nuovo, che sembra riprodurre l’angoscia di tanti nel nostro difficile presente: «Dio, dove sei?».

Nel suo discorso ai giovani della diocesi per la Veglia delle Palme in Duomo nuovo, il vescovo di Brescia Pierantonio Tremolada parte dal rapporto tra amore e libertà: «L’amore – ha detto –, quando è sincero accetta il rischio della libertà. Non impone nulla. Invita a fidarsi, ad accogliere il dono e prima ancora la persona che lo offre, senza alcuna pretesa». Poi una serie di domande, tra cui quella che l’uomo pone a Dio, ma anche Dio all’uomo: «Dove sei?». Interrogativo, dice il vescovo, che anche Dio pone all’uomo, ogni volta che non lo trova, perché l’uomo, in nome della libertà, sceglie di non rispondere. Un rifiuto al bene, dice il vescovo, che «fa parte della stessa libertà, che l’amore non oserà mai intaccare. Dio lo sa bene e proprio per questo pone l’uomo davanti a sé come soggetto consapevole e sovrano. Potrà anche decidere di voltargli le spalle e allontanarsi per un’altra strada».

Tre processioni

Nella chiesa, gremita, fedeli da tutta la provincia confluiti in Duomo da tre processioni distinte, partite verso le 20 da tre chiese del centro, con gruppi distinti per ogni zona della provincia: da S. Maria delle Grazie ritrovo e partenza per i fedeli della pianura, da San Francesco gli abitanti di valli, Franciacorta e laghi, dalla chiesa parrocchiale dei Santi Nazaro e Celso cittadini e residenti dell’hinterland.

Il finale è sul senso da dare alla Pasqua, a partire da un’altra domanda, riferita a Dio, «Quando potremo vederti?»: «Ecco dunque come si può vedere Gesù: guardandolo trafitto sulla croce e lasciandosi attirare dalla sua compassione per il mondo. Solo così lo si capirà. C’è bisogno di uno sguardo di contemplazione, ammirato e riconoscente, che ci tocchi nel profondo. Così lo avranno visto – più tardi – quei Greci che avrebbero voluto incontrarlo al momento. Così possiamo vederlo oggi anche noi».

Di seguito vi proponiamo il testo completo dell’omelia del vescovo Pierantonio Tremolada.

Cari giovani,

benvenuti nella nostra cattedrale per questa Veglia delle Palme 2024. Sono molto felice di vivere con voi questo momento di preghiera e di fraternità all’inizio della Settimana santa, centro dell’anno liturgico e cuore di tutto il mistero cristiano. Il Signore vi conceda di accogliere in abbondanza la grazia di questi giorni, nei quali si rinnova per noi l’opera mirabile della redenzione.

Vorrei ripercorrere con voi il cammino che avete compiuto stasera. Siete partiti da una delle belle chiese della nostra città e avete raggiunto questa che è la chiesa madre. È stato un percorso scandito dall’ascolto della Parola di Dio. Vi hanno accompagnato alcune domande, che avete raccolto dai testi delle sacre Scritture. Avrei piacer di riprenderle insieme con voi, provando a coglierne il senso profondo in un quadro d’insieme, alla ricerca del filo sotterraneo che le unisce e ce le fa sentire ancora più nostre.

Come voi siete convenuti qui, così mi sembra che queste domande convergano verso un punto finale e che questo punto sia la croce del Signore, il santo segno che è esposto qui stasera alla nostra contemplazione.

Dove sei? Questa è la prima domanda che vi è stata proposta. È anche la prima domanda di Dio che troviamo nella Bibbia. Egli la rivolge ad Adamo, l’uomo da lui creato a sua immagine e somiglianza, cioè con la più alta dignità. Il Libro della Genesi fa chiaramente capire che l’atto straordinario della creazione risponde ad una libera scelta, è una iniziativa di Dio del tutto personale, la cui motivazione va ricercata unicamente nel suo desiderio di condividere con l’uomo la propria gloria. Nella sua essenza è un atto d’amore.

L’amore, quando è sincero, accetta il rischio della libertà. Non impone nulla. Invita a fidarsi, ad accogliere il dono e prima ancora la persona che lo offre. Senza alcuna pretesa.

Nel rapporto tra Dio e l’uomo, sin dall’inizio avviene così. Accetterà l’uomo di ricevere in dono se stesso? Saprà riconoscere l’intenzione del suo Creatore? Gli sarà riconoscente? Oppure sospetterà di lui, prenderà le distanze, penserà di doversi difendere e si considererà l’unico padrone della propria vita? La possibilità di questo rifiuto esiste. Fa parte della stessa libertà, che l’amore non oserà mai intaccare. Dio lo sa bene e proprio per questo pone l’uomo davanti a sé come soggetto consapevole e sovrano. Potrà anche decidere di voltargli le spalle e allontanarsi per un’altra strada.

Con il suo genere letterario fortemente evocativo, il Libro della Genesi ci racconta che questo, purtroppo, è ciò che effettivamente è accaduto. L’uomo non si è fidato della parola del suo Signore, non ha accolto la sua accorata raccomandazione, che potremmo parafrasare così: «Non mangiare dell’albero della conoscenza del bene de del male. Non impadronirti del suo frutto, perché, se lo farai, precipiterai nella morte! Fidati di me. Lascia che sia io a dirti cosa è giusto e cosa non lo è. Io solo, infatti, conosco il segreto ultimo della vita».

Un’orgogliosa presunzione e il sospetto verso Dio alla fine hanno avuto il sopravvento. La creatura si è allontanata dal suo Creatore, il figlio dal proprio Padre. Le conseguenze di quel gesto sono state drammatiche e lo sono tuttora. Senza lo sguardo amorevole del suo Dio, l’uomo si ritrova paurosamente solo, circondato da un mondo che gli è diventato ostile. Abbandonato a se stesso, si accorge di essere nudo, esposto indifeso allo sguardo rapace dell’altro, che ormai gli è estraneo se non nemico. L’evidenza del suo limite lo riempie di angoscia e la morte, nelle sue diverse forme, diviene la sua triste compagnia.

La Parola di Dio qui ci è dunque maestra e ci ricorda quel che accade ogni volta che ci illudiamo di bastare a noi stessi e diciamo con superbia: «Io sono la mia libertà e non devo rendere conto a nessuno». Immediatamente il mondo prende le distanze da noi, perde la sua luce, diventa buio e minaccioso. Le relazioni vengono compromesse e la violenza diventa padrona del campo.

Fortunatamente però qualcosa resiste. Rimane viva una voce, che mai tacerà, la voce di colui che con amore di Padre ci ha chiamato all’esistenza. Egli ci viene a cercare e dice, quasi supplicando: «Dove sei? Dove ti sei nascosto? Dove sei precipitato?». Il nostro smarrimento è la sua pena, la nostra infelicità è il suo tormento. Egli non può rassegnarsi a vedere la sua umanità perduta, divenuta preda della sua egoistica illusione.

Ed ecco allora la seconda domanda: Signore, dove abiti? È una domanda che apre una nuova prospettiva. Indica per quale strada sarà possibile vincere la solitudine dell’io superbo. C’è una porta che rimane sempre aperta, una casa nella quale si sarà sempre accolti e dove si potrà sempre dimorare. Quale sia questa casa ce lo racconta il quarto evangelista, quando ricorda l’esperienza di due discepoli del Battista, i quali, avendo ascoltato le parole del loro maestro, si misero a seguire Gesù. Vedendolo arrivare al Giordano, il profeta del deserto aveva detto di lui: «Ecco l’Agnello di Dio, che toglie il peccato del mondo». Colpiti da questa espressione, i due si erano incamminati dietro a lui.

Accortosi che lo seguivano, Gesù si voltò e disse loro: «Che cosa cercate?». Essi risposero: «Maestro, dove abiti?». E lui a loro: «Venite e vedrete». Come a dire: «Venite, volentieri vi mostrerò dove io ho la mia dimora. Sarò felice di ospitarvi, di condividere con voi la mia casa, l’ambiente che mi è più caro. Potremo parlare con calma e forse nascerà confidenza. Ciò che è mio potrà diventare anche vostro e il nostro primo incontro potrà dar vita a un legame profondo e duraturo». In effetti sarà così. Dal Vangelo di Giovanni sappiamo che, più avanti, quando la conoscenza sarà cresciuta, Gesù dirà a questi stessi discepoli: «Non vi chiamo servi ma amici, perché tutto quello che ho conosciuto dal Padre l’ho fatto conoscere a voi».

Entrare nella casa di Gesù ha consentito a questi due discepoli di vivere un’esperienza del tutto nuova. Senza rendersene conto, essi hanno preso contatto con un mistero santo, con il cuore del Figlio di Dio venuto come Salvatore del mondo. A cominciare da quel momento hanno potuto condividere i suoi pensieri, i suoi desideri, i suoi sentimenti, il suo slancio di compassione per l’umanità e soprattutto la gioia di sapersi amato dal Padre suo. Tutto questo è stato offerto a loro in dono e ancora oggi è offerto a noi.

Alla solitudine di un cuore impaurito può sostituirsi l’amabilità del Cristo, l’Agnello di Dio che vince il male del mondo e fa dei suoi discepoli una comunità di fratelli. Essi diverranno con lui e in lui una cosa sola, saranno inseriti in lui come i tralci sono attaccati alla vite. Di loro il Libro dell’Apocalisse dirà che sono “i redenti della terra”, coloro che seguono l’Agnello dovunque egli va e che da lui sono condotti ai pascoli della vita eterna.

C’è infine una terza domanda – cari giovani – che la Parola di Dio vi ha consegnato questa sera. La potremmo formulare così: Signore, quando potremo vederti? Mi permetto qui di trasformare in un interrogativo la richiesta presentata a Filippo da alcuni Greci. L’avete sentito raccontare lungo il percorso nel Vangelo di Giovanni. Costoro dicono a Filippo: “Signore, vogliamo vedere Gesù”. Colpisce questo desiderio così vivo in persone di una diversa cultura, che non appartengono per nascita al popolo ebraico e che tuttavia hanno voluto raggiungere Gerusalemme per condividere con i figli di Israele la gioia della Pasqua. In questi cuori aperti alla rivelazione del Dio di Israele prende corpo un desiderio: «Vogliamo vedere Gesù!». Da dove viene mai questo desiderio? Che cosa lo ha suscitato? Il testo di Giovanni non offre risposte. Per l’evangelista ciò che importa è il desiderio stesso e la possibilità che venga esaudito. Riusciranno dunque a vedere Gesù? Quando e come potranno farlo?

Filippo riferisce ad Andrea la loro richiesta e questi la presenta a Gesù. La risposta del Maestro è piuttosto misteriosa. Egli parla di un’ora che ormai è giunta, allude a ciò che tra poco gli accadrà, utilizzando l’immagine del chicco di frumento che cade in terra, muore e porta frutto. Conclude poi con una solenne dichiarazione: «Io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me». L’evangelista subito spiega: «Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire».

È evidente l’allusione alla morte di Gesù sulla croce, morte per innalzamento, a braccia aperte, tra cielo e terra. L’evangelista Luca, nel racconto che abbiamo ascoltato, presenta il Calvario come lo scenario di uno spettacolo che trafigge il cuore. La folla si batte il petto, perché comprende l’enormità dell’ingiustizia compiuta. Che cosa bisognerà attendersi da una morte così orribile inflitta al Messia di Dio?

È tuttavia l’evangelista Giovanni ad offrirci l’ultima parola, quella che svela il segreto di questo spettacolo sconvolgente. Raccontando la morte in croce di Gesù e il colpo di lancia che gli aprì il costato, Giovanni cita alcune parole della Scrittura, che riconosce adempiute. Sono le parole del profeta Zaccaria, che da lontano annuncia: «Guarderanno a colui che hanno trafitto». Nell’intenzione di chi scrive, queste parole vanno unite a quelle pronunciate in precedenza da Gesù: “Quando sarò innalzato da terra io attirerò tutti a me”.

Ecco dunque come si può vedere Gesù: guardandolo trafitto sulla croce e lasciandosi attirare dalla sua compassione per il mondo. Solo così lo si capirà. C’è bisogno di uno sguardo di contemplazione, ammirato e riconoscente, che ci tocchi nel profondo. Così lo avranno visto – più tardi – quei Greci che avrebbero voluto incontrarlo al momento. Così possiamo vederlo oggi anche noi.

Cari giovani, la croce – ci dice la liturgia – è l’albero della vita. Questa sera noi potremmo dire, pensandola inseparabile dal Cristo crocifisso, che è la nostra casa. Un luogo, non uno spazio, dove dimorare, dove trovare rifugio e riposo.

Mi hanno molto colpito le parole di Romano Guardini sul segno della croce, che vi sono state proposte nel vostro percorso. Egli raccomanda di fare il segno di croce in modo giusto, cioè lento, ampio. «È un segno – dice – che ci avvolge, corpo e anima, che ci consacra, che ci santifica. È il segno della totalità e della redenzione, che ci immerge nella forza di Cristo, nel nome del Dio uno e trino».

Se ci pensate, con questo segno noi iniziamo tutto e tutto concludiamo: le nostre giornate, le nostre azioni, la nostra preghiera, i nostri riti più solenni. Attraverso questo segno, noi riceviamo la benedizione.

Vogliamo allora rinnovare questa sera la nostra fede nel mistero santo della Pasqua del Signore, il cui sigillo da sempre e per sempre è il segno della croce: «Noi ti lodiamo, o Cristo, e ti benediciamo, perché con la tua santa croce hai redento il mondo».

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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